venerdì 27 settembre 2019

LA SERA CHE CHIAMAI FRANCO

Giugno 2010, sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa Pareti del Cielo, senza timore di smentite uno dei libri più contestati nella storia dell'alpinismo italiano. Limitandomi a quanti non hanno ricorso alla querela, i commentatori più moderati hanno scritto soltanto che era un «libro inutile» e lo hanno paragonato alla barzelletta dell'automobilista impazzito che corre contromano sull'autostrada. La prefazione del libro era mia, e la ripropongo stasera a quasi dieci anni di distanza come testimonianza di rinnovata amicizia verso l'autore e protagonista. In direzione ostinata e contraria è sempre stata un'espressione che ben si adatta all'esperienza di vita del grande Franco Miotto.

La Primula Rossa della Schiara era ed è tuttora famosa per il suo carattere talvolta schivo ed allergico al chiasso della folla, senza ombra di dubbio sincero ma anche brusco e sanguigno. Non è persona da mezze misure o gradazioni di grigio: con lui è possibile soltanto un’intesa istintiva oppure, nel peggiore dei casi, una contrapposizione radicale e profonda. Oggi mi sembra incredibile a ripensarci, ma la prima volta che sollevai la cornetta del telefono per disturbarlo nella sua quiete domestica mi ritrovai veramente a meno di un passo dalla seconda delle eventualità di cui sopra.
Correva l'anno 2002 e la scrittrice Luisa Mandrino aveva appena dato alle stampe il fortunato libro La forza della natura, un’appassionata biografia di Franco che sarebbe stata presentata entro pochi giorni in anteprima al festival bellunese Oltre le Vette. Ritenevo utile scambiare due parole con il Nostro in vista di un possibile articolo di presentazione su un quotidiano locale, ma fui costretto a fare i conti con la ruvida reazione di Franco. Appena intuito che il mio mestiere era quello del collaboratore giornalistico si trattenne a stento dal mandarmi a Quel Paese per la via più breve, ma fu così bravo da riuscire a salvare la forma mantenendo intatta la sostanza del discorso: «No, guardi, lasciamo perdere. Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare, e non mi sembra il caso di farlo in pochi minuti qui al telefono».
Fu la prima e l'ultima volta, ancora oggigiorno me ne stupisco, che ci rivolgemmo l'uno all'altro dandoci del Lei. L'articolo uscì in stampa, Franco lo lesse e con ogni probabilità non lo ritenne scritto male. Mi recai a salutarlo alla presentazione del volume ed un paio di settimane più tardi mi chiamò improvvisamente al telefono cellulare mentre mi trovavo ancora fuori casa: «Sono Franco Miotto, mi farebbe piacere ospitarti a casa mia per un bicchiere di vino, uno di questi giorni».
Fu la fine. Oppure, se vogliamo, un grande ed entusiasmante inizio: una quantità strabiliante di bottiglie di vino, e mi riferisco in particolare al forte Tocai friulano che fa la parte del leone nella sua cantina, sono state prosciugate da quel giorno di otto anni fa. Tuttavia ancora oggi Franco, nelle frequenti occasioni in cui si abbandona alla marea dei ricordi, spesso non trascura di cospargersi il capo di cenere: «Quella volta al telefono non sono stato proprio il massimo della cortesia, mi dispiace un sacco».
Siamo compaesani da diversi anni, ma fino ad un certo punto della mia vita il nome di Franco Miotto ha rappresentato “soltanto” un nome inciso sulla pietra nel pantheon dell’alpinismo italiano, un riferimento sfuggente che spesso ricorreva in materia di montagna bellunese quando si voleva indicare qualcosa di irripetibile o comunque non facilmente imitabile da parte dei comuni arrampicatori ed escursionisti domenicali. In seguito, ribadisco, gli avvenimenti hanno preso una strana piega. Normalmente la conoscenza diretta riduce le distanze tra le persone, e le induce col passar del tempo a valutazioni reciproche basate su fatti oggettivi. Anche frequentando Franco è andata in parte in questo modo, ma soltanto fino ad un certo punto: l’Uomo dei Viàz anche dopo molti anni possiede infatti l’indubbia abilità di stupire quanti gli stanno intorno.
Franco è capace di impiegare giorni interi per studiare un dilemma che gli sta a cuore, analizzarlo da ogni prospettiva possibile, escogitare una soluzione semplice e complessa nello stesso tempo (magari l’uovo di colombo, al quale in precedenza nessuno aveva mai pensato) ed infine applicarla in modo perfino elegante da un punto di visto estetico. Non mi riferisco beninteso soltanto a problemi di carattere alpinistico, bensì anche a faccende che riguardano la vita quotidiana: la cura delle api e degli alveari; l’intarsio in legno del volto di Ernesto “Che” Guevara con il bianco riflesso dell’occhio che nel corso della lavorazione lo ha fatto impegnare con particolare puntiglio; il rimedio al flagello delle talpe, che ogni anno con la bella stagione tentano di devastargli il tappeto erboso del giardino a cui tiene moltissimo.
In questo volume pubblicato da Nuovi Sentieri ho cercato di intervenire con i piedi leggeri, sforzandomi al massimo per fare emergere dall’intreccio della storia soprattutto Franco con la sua grinta generosa ed imprevedibile. Sono grato all’editore Bepi Pellegrinon per averci permesso con pazienza di portare a termine questo progetto, ma ringrazio soprattutto lo stesso Franco Miotto, che a un dilettante sprovveduto della montagna come il sottoscritto ha rivelato il fascino pauroso e selvaggio delle Dolomiti Bellunesi. Rivolgo infine un doveroso omaggio al ricordo di Benito Saviane, scomparso nel febbraio 2010 dopo una breve ma dolorosa malattia.