giovedì 20 dicembre 2018

IL MARE A BELLUNO

Capraia... oppure Irlanda?
Ancora mare, ancora isole, alla faccia di quanti sostengono che penso soltanto alla montagna ed invece si sbagliano di grosso. In questo periodo mi viene spontaneo pensare a posti così, naturalmente isolati come vorrei essere anch'io sempre più spesso. Era il giugno dell'anno 2006, ed insieme ad un gruppo di amici mi trovavo sull'arcipelago toscano con lo zaino in spalla, in cerca di sentieri ma anche di quegli attraenti locali con tavolo, cibo e bevande che spesso stanno in agguato alla fine dei sentieri. In questo, la ricerca fu coronata da successo. Qualche mese più tardi scrissi questo breve promemoria per ricordare l'avventura. «Saluti dall'Irlanda», scrisse infine nel 2017 un amico burlone come didascalia ad una foto appena pubblicata su un social network: l'immagine ritraeva una costa insulare dirupata e sferzata dal maltempo, che non era esattamente l'Irlanda ma le assomigliava assai. Era proprio Capraia, e lo scatto era preso dal medesimo belvedere dove mi ero fermato anch'io più di dieci anni prima. Cortocircuiti tipici dei viaggiatori isolani.

Fa uno strano effetto imbarcarsi a Livorno in direzione dell'isola Capraia ed affidarsi alla benevolenza delle onde per tre o quattro ore di navigazione, in mezzo al grande arcipelago toscano. Da un lato è inevitabile fare i conti con la buonanima di Dante Alighieri, e la sua invettiva a margine della vicenda del Conte Ugolino:

Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove 'l sì suona / poi che i vicini a te punir son lenti / muovasi la Capraia e la Gorgona / e faccian siepe ad Arno in su la foce / sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

D'altro canto è quasi impossibile doppiare la boscosa isola di Montecristo senza sentirsi almeno per breve tempo Edmond Dantès in fuga dalla prigione marsigliese del Castello d'If: accade soprattutto quando si comincia a scorgere in lontananza il profilo di Capo Corso che si staglia nella nebbiolina di una mattina di giugno, con i suoi moderni ed efficienti impianti eolici (a casa nostra continuano a sostenere che sono antiestetici e che deturpano il paesaggio, ma a dirlo sono sempre gli stessi che sono anche a favore degli inceneritori e delle centrali atomiche).
Trattandosi di un'isola, Capraia gode di tutti i privilegi e le scomodità propri della terra staccata dal Continente: quando si tratta di territorio circondato dal mare, tutte le abituali certezze legate alla quotidianità della terraferma sembrano vacillare. A cominciare proprio dalle comunicazioni via mare: il tempo è incerto, non si sa quando si partirà e se il traghetto potrà attraccare fuori della piccola rada, una volta giunti a destinazione. È possibile infatti che il capitano decida all'ultimo momento di rimanere al largo per evitare che la furia delle onde possa far schiantare il bastimento sul duro cemento del molo.
Sono finiti i tempi in cui le isole italiane erano sede di impopolari e detestate colonie penali: al giorno d'oggi l'arcipelago toscano non offre più rifugio ai carcerati bensì soltanto alle agavi, i fichidindia, i pulcinella di mare ed i viaggiatori in cerca di solitudine, tanto che il ritmo di vita dei pochi abitanti ha finito per adeguarsi. Uno dei primi dettagli a colpire l'attenzione è il modo di trascorrere il tempo escogitato dalla Forza Pubblica: due volte al giorno una pattuglia di Carabinieri lascia infatti gli uffici della caserma e percorre a bordo di una Fiat Punto i circa due km di strada asfaltata che separano il borgo di Capraia dal porto, per andare a sbirciare le facce nuove che saltano giù dal traghetto. Non importa se uno dei passeggeri abituali del naviglio è il poco prosaico furgone della nettezza urbana incaricato di trasportare i rifiuti in terraferma: l'importante è dimostrare di essere presenti in prima linea, pronti a fronteggiare eventuali imprevisti.
Capraia vive di mare e di turismo. Ad eccezione del borgo e della zona intorno al porto, l'isola è praticamente disabitata ed è attraversata da viottoli sassosi che si inerpicano in mezzo alla macchia mediterranea. Ammirando il mare dal comprensorio delle vecchie carceri in direzione dell'isola d'Elba, dove un illustre ladrone del tempo che fu venne costretto ad un po' di soggiorno obbligato, non si può fare a meno di pensare a noi stessi in una pellicola di Gabriele Salvatores: si chiama Capraia ma è quasi Grecia, ed il vino aleatico che si degusta nelle locande del porto è una bevanda inebriante che ci trasporta verso Oriente sulle ali della calda brezza marina.
A Capraia non è facile approdare, ma partire è ancora più complicato, soprattutto quando il vento di grecale solleva onde alte come case e diffonde un rassegnato pessimismo sull'arrivo del prossimo traghetto. Gli isolani ci hanno fatto l'abitudine e se la prendono comoda, ma per un manipolo di montanari oriundi dolomitici questa atmosfera di incertezza rappresenta motivo di inquietudine, soprattutto quando il fine settimana volge al termine ed il lunedì mattina la timbratura del cartellino incombe impietosa. Il mare rappresenta la grande variabile indipendente di tutte le isole, ed il proprietario di una trattoria del porto osserva incuriosito il nostro comportamento: «Ma da dove venite?», ci chiede infine dopo averci esaminato per bene. Da Belluno, veniamo, e che diamine. «E che, non ce l'avete il mare, a Belluno?»

venerdì 14 dicembre 2018

L'ISOLA DEI GRADINI

Gli scalini di Alicudi
Arrivano i primi freddi e la memoria si volge verso l'Altrove passato come buon auspicio, sperando in bene, per quanto riserverà il futuro. Sulle ali dei ricordi ritorno dunque ad un'isoletta del Mar Tirreno che soltanto la presbite geografia delle grandi distanze può considerare al centro del Mare Nostrum, sorvolando sul fatto che si tratta di una delle terre più remote di questo vecchio angolo di mondo: perfino più distante e fuori mano rispetto a tante località di montagna che già conosco, le quali almeno una stradina tortuosa di collegamento con il fondovalle ben la possiedono. Per arrivare da queste parti nella bella stagione servono diverse ore di aliscafo, e una volta a destinazione tutto ti ricorda quanto è severa e avventurosa la vita senza le comodità cui siamo abituati noi del continente.
Poco più di cinque km quadrati di superficie in tutto, nei quali la dimensione verticale prevale di gran lunga su quella orizzontale già a partire dal piccolo porto e fino ai 675 metri del Filo dell'Arpa che costituisce l'elevazione principale dell'isola. Una volta sbarcati, abbiamo a disposizione per spostarci soltanto le vie della montagna: scale e sentieri scoscesi per i bagagli dei turisti trasportati a dorso di mulo, e già il percorso dall'imbarco alle case private rappresenta un'escursione con un dislivello rispettabile. Soltanto un centinaio i residenti stanziali, che soprattutto nella stagione fredda sperimentano il vero significato della solitudine: collegamenti ridotti con la terraferma e periodi prolungati di isolamento quasi totale, scarsità di servizi essenziali come un medico curante, una farmacia, una scuola. Gli anziani custodiscono con orgoglio le proprie case d'altura come fossero castelli, e trattano con sufficienza i perdigiorno che sprecano il proprio tempo frequentando il bagnasciuga.
La contrada di San Bartolo
Non hanno tutti i torti poiché da secoli, fin dal tempo delle razzie dei pirati saraceni, la vera ricchezza dell'isola sta in alto, sui terrazzamenti artificiali che offrono protezione e dove il terreno vulcanico garantisce raccolti rigogliosi per le coltivazioni tradizionali: ulivo, vite e capperi. In alto, al giorno d'oggi salgono anche gli escursionisti attirati dalla particolarità delle lunghe e ripide scalinate in pietra e dal panorama sbalorditivo che si coglie in vetta verso il resto dell'arcipelago eoliano. Poi, al ritorno, meglio affrontare con prudenza la discesa in alcuni punti un po' esposti, presso i quali soltanto qualche sporadico fico d'india potrebbe offrire una spinosa protezione in caso di scivolata.
Gli antichi greci la chiamavano Ericusa con derivazione dalla pianta dell'erica di cui era ricoperta, mentre il nome attuale ha radici arabe. È un cono vulcanico spento piantato in mezzo al mare, ma dalle sue pendici si possono ammirare, così distanti da confondersi con le nuvole, le nevi del monte Etna. Quant'è bella, remota ed insolita Alicudi: un pezzo di me stesso si è proprio fermato laggiù, e prima o poi dovrò tornarci per ritrovarlo.

giovedì 6 dicembre 2018

LUNGA VITA AL LUPO

Il ritorno del lupo su Dolomiti e Prealpi bellunesi è ormai documentato ed accertato: nonostante si tratti di un avvenimento previsto con diversi decenni di anticipo a causa delle trasformazioni dell'ambiente naturale, le reazioni degli abitanti della montagna alla ricomparsa di questo predatore sono tuttavia particolarmente accese ed ostili, spesso addirittura di segno opposto alle manifestazioni di quasi simpatia e benevola tolleranza registrate nei confronti di un altro visitatore importante come l'orso.
La colpa non è del tutto nostra: paghiamo lo scotto di secoli, se non addirittura di millenni di paure ataviche sepolte nel nostro inconscio, secondo le quali alcuni fenomeni ostili della natura sarebbero una vera e propria epifania del male. Insomma, viviamo ancora nella favola di Cappuccetto Rosso: il lupo più simpatico che ricordiamo è Ezechiele dei fumetti Disney, ma comunque gli preferiamo di gran lunga Pietro Gambadilegno. Con una breve ricerca nei siti internet "specializzati" sull'argomento possiamo perfino apprendere con abbondanza di "prove" che tutti gli abitanti delle terre alte sarebbero ormai potenzialmente in pericolo di vita: se non adeguatamente contenuti, i lupi avrebbero la tendenza a «moltiplicarsi esponenzialmente» (gulp..., n.d.r.) ed a «impadronirsi progressivamente del territorio degli uomini» (orgh..., n.d.r.); senza reazione preventiva da parte umana, i lupi potrebbero addirittura «invadere le nostre case come avveniva nel medioevo» (eeek..., n.d.r.). Si salvi chi può, e ricordatevi di mettere al sicuro la nonna.
Scherzi a parte, non si tratta di negare gli inevitabili problemi che la ricomparsa di un predatore come il lupo può determinare. Dal mio modesto punto di vista di semplice abitante della montagna, valori come la convivenza e l'equilibrio rappresentano in ogni caso una scelta migliore rispetto alla scontata opzione dello sterminio ai danni di un animale ritenuto a torto come nocivo. La sesta estinzione di massa degli esseri viventi è in corso, ci insegna la scienza, e se intendiamo rimediare è necessaria una rivoluzione culturale: l'egemonia senza criterio da parte di homo sapiens crea più problemi di quanti ne risolve.
Poiché infine mi piace lasciare la parola a quanti ne sanno più di me, segnalo un'interessante intervista sull'argomento, pubblicata circa un anno fa sul Corriere delle Alpi di Belluno e riproposta sul sito internet di Mountain Wilderness.

martedì 27 novembre 2018

NASCOSTE NELL'ERBA

Questo articolo me l'ero proprio scordato. Correva l'anno 2008 e già allora, strano a scriversi ed ancor più a leggersi, sopportavo con malcelata difficoltà le zecche: se qualcuno si chiede come mai, significa che non è mai stato a funghi in un bosco o che la sede preferita della sua attività sportiva è una palestra linda e splendente dove gli insetti non mettono zampa. Reduce da quasi quattro settimane di antibiotici, provai allora a riderci sopra scrivendo il pezzo seguente, pubblicato in origine sulla piattaforma Splinder.  A qualche anno di distanza, umorismo e napalm a parte, l'unica prevenzione possibile sta ancora nel controllo meticoloso del proprio corpo dopo un'escursione, e naturalmente nel vaccino.

Se è riconosciuto il fatto che il fumo delle sigarette è attirato in direzione dei belli, non altrettanto provata è la teoria secondo la quale le zecche si attaccano di preferenza alle chiappe dei fessi. Poiché il sottoscritto è perseguitato con cadenza regolare da entrambi i suddetti tormenti, nella mia vita quotidiana mi sorprendo sempre più spesso a valutare se a conti fatti si tratta di un guadagno oppure di una perdita. Se insomma il fastidio di avere a che fare con fumatori e zecche sia controbilanciato dall'opportunità di essere un potenziale fotomodello. Mentre tuttavia la nociva specie dei fumatori può essere elusa con facilità, e questo soprattutto da quando alcuni importanti progressi nella legislazione italiana permettono di isolarne gli esemplari in ambiente aperto quando si trovano nell'esercizio delle loro funzioni, con i fastidiosi parassiti che infestano i nostri prati e le nostre montagne risulta tutto più difficile.
Prima di tutto non è materialmente possibile obbligare una zecca, ignobile artropode ematofago appartenente a un sottordine degli acari, ad andarsene a rompere le scatole altrove a norma di legge come si fa oggigiorno con i fumatori nei locali pubblici. Fino a prova contraria, questa immonda e nefasta creatura se ne sta infatti a proprio agio nella vegetazione incolta, in attesa di un passaggio a scrocco da parte di un malcapitato quadrupede o bipede in cerca di grane, ed a quanto pare risulta piuttosto arduo evitarne il contatto. Se l'ospite è così avveduto da accorgersi in tempo della presenza della zecca, nel migliore dei casi lo attende una lunga e scomoda esplorazione corporale davanti allo specchio, armato di pinzetta e lente di ingrandimento. In secondo luogo, la comune zecca dei boschi è portatrice di una lunga serie di malattie tra le quali è importante ricordare il morbo di Lyme e l'encefalite (TBE): la prima è facilmente identificabile per la presenza della celeberrima macchia rossa (eritema migrante) e possiede un decorso lungo e lento, che si può interrompere in modo abbastanza sicuro con una cura di antibiotici lunga un mese; la seconda rappresenta una minaccia assai più pericolosa a causa del periodo di incubazione breve e gli effetti nocivi sul sistema nervoso, ma esiste in ogni caso un vaccino che garantisce uno schermo immunitario sufficientemente affidabile.
Veniamo tuttavia alla fattispecie concreta: sono convinto che esista qualche legge cosmologica scritta nella pietra in virtù della quale, nel corso di una gita in compagnia effettuata in montagna in un ambiente a rischio, il sottoscritto scrivente finisce con cadenza regolare per ritrovarsi ricoperto da quantità spropositate di zecche, mentre la parte restante della comitiva si limita a contatti sporadici. La faccenda risulta ancora più preoccupante se si tiene conto del fatto che abitualmente non mi rotolo nell'erba, non faccio la cacca nei campi di pannocchie e soprattutto non sono un compagno di giochi di animali selvatici portatori conclamati come caprioli e cinghiali. Il mio primato personale giornaliero risale ad una domenica nella seconda metà degli anni Novanta, quando durante un'uscita sui monti di Zoldo finii per scrollarmi di dosso ben trenta esemplari: tutti minuscoli, coriacei ed estremamente cattivi.
Mi sia permesso un attimo di astrazione fino ai massimi sistemi: a cosa serve un animale inutile ed autoreferenziale come la zecca? Sulla montagna bellunese questo flagello si è diffuso a macchia d'olio grazie all'abbandono dei pascoli e alla riforestazione, ma a quanto pare è talmente insulso e repellente che nessun animale sembra trovarlo appetitoso. Può stare in agguato nella loppa (erba secca) per un periodo di tempo indefinito e non sembra essere sensibile agli agenti atmosferici: le abbondanti nevicate dello scorso inverno non ne hanno limitato la diffusione, e considerata la sua presenza anche su terreni recentemente teatro di incendi boschivi mi viene addirittura il motivato sospetto che questo acaro malvagio possa manifestare qualità ignifughe.
Tra i rimedi più fantasiosi e inutili me ne ricordo in particolare uno, che godette di improvvisa ma immeritata fama alla fine degli anni Novanta. Era il periodo della prima esplosione del fenomeno in terra bellunese, e per un breve periodo le Guardie Forestali ritennero opportuno ricorrere alla tecnologia, sperimentando un apparecchio a ultrasuoni che sulla carta avrebbe dovuto far desistere i temuti acari dall'approccio con l'uomo. Non si ha oggi notizia che lo stratagemma abbia ottenuto qualsivoglia effetto positivo. Semplicemente, dopo un po' di tempo non si parlò più dei miracolosi apparecchi e l'aneddoto venne dimenticato. Ai nostri giorni qualcuno ritiene ancora che un mezzo estremo ma concreto come il napalm possa almeno determinare una timida azione contenitiva di disturbo.

lunedì 19 novembre 2018

RICORDANDO ETTORE

Murale al rifugio Carducci
Il nome di Ettore Castiglioni (1908-1944) viene giustamente citato quasi sempre a proposito di alpinismo, in virtù della sua intensa attività di scalatore svolta in gran parte sulle Dolomiti (ma non solo) negli anni Trenta del Novecento. Le sue imprese di scalatore e sestogradista sono note e non mi dilungherò in questa sede a parlarne (alcune note biografiche sono disponibili per la consultazione su https://it.wikipedia.org/wiki/Ettore_Castiglioni). Vorrei piuttosto soffermarmi sull'ultimo periodo dell'esistenza dell'alpinista milanese, culminato con la sua prematura scomparsa sulle nevi del passo del Forno durante una gelida notte invernale, negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale.
Istruttore alla scuola militare alpina di Aosta con il grado di sottotenente degli alpini, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 Ettore Castiglioni aderì al C.L.N. e divenne promotore di diversi gruppi partigiani. Attraverso il confine italo - svizzero, finanziandosi mediante qualche attività di contrabbando di generi alimentari, Castiglioni mise a disposizione la sua esperienza di montanaro e guida alpina per favorire la fuga oltre confine di perseguitati politici (esponenti dell'antifascismo italiano, fra i quali Luigi Einaudi futuro primo Presidente della Repubblica Italiana) e vittime delle leggi razziali (famiglie di origine ebraica perseguitate dal nazifascismo).
Castiglioni considerava il proprio ruolo di alpinista e guida in montagna soprattutto come un'esperienza umana dal profondo valore interiore. Non è quindi un caso che una delle sue frasi preferite, come leggiamo nel suo diario intitolato Il giorno delle Mèsules, fosse «Non si arrampica per avere un applauso». Non può dunque meravigliare nemmeno il fatto che il Nostro non abbia lasciato alcuna documentazione scritta relativa alle persone ed alle famiglie aiutate a fuggire dalla persecuzione. Tutte le notizie riguardanti la sua presenza ed attività sul confine italo - svizzero nei pressi della Valmalenco fino all'inverno 1943/44, attività che alla fine gli costarono la vita, derivano dal racconto di amici, conoscenti e collaboratori.
Il Giardino dei Giusti a Gerusalemme
A così tanti decenni di distanza da quegli eventi, la figura storica e la generosità disinteressata di Ettore Castiglioni destano tuttavia nuova curiosità. Ci hanno pensato dapprima diverse uscite editoriali: il già citato Il giorno delle Mèsules (Hoepli, 2017), La storia di Ettore Castiglioni (M. A. Ferrari, TEA Storica, 2008) ed infine il cortometraggio Oltre il confine (A. Azzetti e F. Massa, 2017). Un gruppo di amici appassionati della montagna e della storia dell'alpinismo, da qualche anno a questa parte, si è anche interessata per produrre la documentazione necessaria affinché Castiglioni venga proclamato Giusto fra le nazioni con riconoscimento formale presso il Giardino dei Giusti a Gerusalemme. La fase istruttoria di questa iniziativa è tuttora in corso, e si svolge fra Italia ed Israele grazie al coinvolgimento della fondazione Christian Friends of Yad-Vashem.

giovedì 15 novembre 2018

CARE TERRE SELVAGGE...

Sfacelo di abeti lungo Valle Còr
Domenica 11 Novembre 2018: PREALPI BELLUNESI, traversata da Montegàl a Pian de le Fémene (m 1200 ca.).

Care le Mie Terre Selvagge, da qualche anno avevo preso l'abitudine colloquiale di chiamarvi in questo modo un po' canzonatorio, più che altro per similitudine con le Terre Selvagge propriamente dette (quelle di tolkieniana memoria). Mi attirava l'idea un po' romanzesca che il lato avventuroso ed imprevisto della vita cominciasse proprio dietro l'angolo di casa: «La Via prosegue senza fine», ripetevo ogni tanto come Bilbo Baggins, ed a contenuta distanza dal mio paese avevo a portata di gamba un itinerario poco frequentato e senza eccessivo impegno.
Care le Mie Terre Selvagge: se prima era tutto sommato un gioco, oggi state facendo di tutto per assumere sul serio un'aria arcigna e polemica. Ci hanno pensato per primi i boschi, che un un decennio alla volta si sono ripresi quasi tutto lo spazio un tempo assegnato ai pascoli; poi si è data da fare la fauna selvatica (caprioli e cervi, cinghiali, da ultimi perfino i lupi); infine è arrivato il meteo autunnale nelle sue manifestazioni più estreme che ha fatto strage di tronchi, strade forestali e sentieri trasformandoli in un groviglio di legno schiantato. Ora che vi ho visto, ammetto che siete proprio selvagge al punto giusto. Ma non è proprio questo, in fin dei conti, il vero volto della natura? E se insisto ancora a lamentarmi: chi si trova veramente fuori posto, fra noi due?

Partenza dal parcheggio di Montegàl in una mattinata grigia ed umida, mentre le motoseghe dei malgari ripristinano con pazienza e rassegnazione almeno le vie di comunicazione principali. La strada bianca che attraversa il Canàl de Limana è già stata liberata, e la salita fino a Pian de le Fémene è abbastanza agevole nonostante lo scenario di devastazione boschiva che si attraversa. Poi, sulla cresta erbosa non ci sono alberi e tutto sembra quasi normale. I veri problemi si rivelano dapprima sul sentiero di discesa verso la sorgente Saonèra (del tutto soffocato dalle piante cadute), poi sulla strada forestale che dalla casere Frascòn riporta a Montegàl (interrotta in più punti da abeti collassati). Non c'è proprio nulla da fare: bisogna rinunciare al giro ad anello, tornare sui propri passi e ripercorrere l'itinerario di andata in senso inverso, quasi raddoppiando la distanza totale.

Circa 700 metri di dislivello, per 17 km e 3,5 h di percorrenza effettiva. Meteo plumbeo e nebbioso specialmente sulla parte in cresta da Pian de le Fémene alle malghe di Pezza.

lunedì 5 novembre 2018

QUANTI RESTERANNO?

[...] È con profonda amarezza che noi assistiamo alla progressiva scomparsa di quel meraviglioso lavoratore specializzato, quell'impareggiabile artigiano, che era ed è ancora il montanaro. Uno spreco di valori rovinoso, per sostituirvi un cattivo operaio da catena di montaggio, un mediocre burocrate, un gelatiere all'estero, che, con tutto il rispetto per tale categoria, il cui relativo benessere è frutto di enormi sacrifici, spesso diviene un ibrido umano e culturale, senza più alcun legame reale, con la sua terra e la sua civiltà [...].
Piero Rossi, IL PARCO NAZIONALE DELLE DOLOMITI, Nuovi Sentieri Editore, Belluno 1976.

Tramonto sulle terre alte?
Qualche anno fa, pur nella discontinuità degli interventi coi quali l'ho in seguito popolata, avevo pensato ad un raccolta di scritti intitolata Sulle tracce di Piero proprio in omaggio allo scrittore ed alpinista bellunese - friulano Piero Rossi (1930-1983) ed alla sua intensa attività bibliografica dedicata alla vita ed al lavoro delle comunità montane sulle terre alte. Mai come in questi giorni, mentre poco a poco l'ecatombe umana ed ambientale scatenata dal maltempo sui monti veneti si sta rivelando in tutta la sua gravità, ritengo che l'analisi e la visione di Piero Rossi siano oltremodo attuali e lungimiranti.
Nel momento in cui sto scrivendo, le esatte proporzioni e l'entità dei danni in alto Agordino, Zoldo, Comelico e nelle altre vallate della Provincia bellunese sono ancora oggetto di una stima approssimativa, che diventerà certamente più precisa durante le prossime settimane. In qualità di abitatore e frequentatore pluridecennale di queste medesime contrade, voglio comunque fin d'ora anticipare un paio di considerazioni. La prima è strettamente personale: in un futuro che mi auguro non troppo lontano, tornare a visitare questi posti anche soltanto in qualità di escursionista non sarà emotivamente facile, sebbene in buona misura auspicabile. Non facile, perché in parte sembrerà di andare a mettere il naso nelle disgrazie altrui; in ogni caso auspicabile perché anche l'escursionismo, (almeno quello "sostenibile", non consumistico e non invadente) costituisce un'attività compatibile con la conservazione della cultura alpina, nel rispetto delle sue peculiarità ed aspetti locali.
In secondo luogo, un semplice dato riguardante la tendenza demografica dell'ultimo mezzo secolo: i Monti Pallidi si stanno spopolando, in modo lento ed inesorabile. I collegamenti stradali verranno certo ripristinati, le linee telefoniche e la corrente elettrica torneranno nelle abitazioni insieme all'acqua potabile. Perfino i devastati boschi di conifere riprenderanno lentamente il proprio aspetto, nel tempo relativo di qualche generazione. Ma le ferite sofferte dalla cultura e dallo spirito delle comunità umane rischiano di accelerare il processo di fuga dalla montagna che è già in atto da decenni. Le strategie con le quali l'emergenza verrà gestita nel corso dei prossimi mesi, da questo punto di vista, potrebbero fare la differenza. La montagna non appartiene soltanto a chi la abita: è un patrimonio universale, e se i valligiani continueranno fra mille fatiche a prendersene cura, questo fatto andrà di certo a vantaggio dell'economia, del benessere e della sicurezza anche di chi abita centinaia di chilometri distante da questi luoghi sfortunati.

giovedì 1 novembre 2018

INTERVISTA AD ALESSANDRO GOGNA

Mentre fuori piove ancora ma per fortuna non tira molto vento, ritorno alla lettura di una mia vecchia intervista all'alpinista Alessandro Gogna, pubblicata in origine su Le Dolomiti Bellunesi (edizione estate 2006) e riproposta in data odierna dal diretto interessato sul suo sito GognaBlog, col sottotitolo «La montagna non è né necessaria né sufficiente».
Si parla di Pale di San Lucano, sviluppo turistico delle terre alte e di tanti altri argomenti interessanti, sui quali a più riprese ho rotto le nacchere ai miei sporadici lettori. Un saluto ad Alessandro, ed un ringraziamento per questa rievocazione.

lunedì 29 ottobre 2018

QUALCHE ANNO FA, BENITO

Benito Saviane a Chies d'Alpago, 2004
Vivo un particolare momento della mia esistenza. I grandi vecchi della montagna - mi piace definirli così per una faccenda di rispetto, ma si tratta di amici che ho conosciuto dapprima per lavoro quando scrivevo sui giornali, e che in seguito ho frequentato per decenni - sono in buona parte andati avanti o comunque non più in grado di ricordare e comunicare causa motivi di salute. E proprio in questo lunedì di fine ottobre, mentre prima fuoco e poi diluvio mettono a soqquadro la mia terra, mi piace ricordare uno degli insegnamenti che questi amici montanari mi hanno trasmesso, dopo averli a loro volta appresi dalle precedenti generazioni: la montagna non è uno sport e nemmeno un pretesto per ridere in faccia al rischio, bensì il palcoscenico plurimillenario di un quotidiano rapporto di amore / odio fa l'uomo e l'ambiente naturale. Da entrambe le parti qualcosa si lascia e qualcosa si prende, ma fino a qualche decennio addietro l'attività umana sulle terre alte, anche se solo come risultato di un gioco a somma zero, era caratterizzata da un concetto di equilibrio oggi fuori moda.
Benito Saviane (1940-2010) è stato una di queste persone. Ci siamo visti in realtà per pochi anni, ma possedeva la rara qualità di saper trasmettere nello stesso tempo semplicità e carisma. Qualche tempo prima della sua scomparsa riuscii con qualche riluttanza da parte sua a pubblicarne un'intervista per Le Dolomiti Bellunesi (edizione estate 2009), della quale ripropongo qui di seguito un paio di capoversi. Mentre registravo il colloquio, mi colpì in particolare la sua capacità di anticipare le mie domande, tanto che alla fine ne uscì un lungo ed avvincente monologo. Mi congedò regalandomi una bottiglietta di succo di ribes fatto in casa, e ci demmo  appuntamento alla prima occasione utile, magari proprio per l’uscita in stampa dell’articolo che avrei scritto. Ci incontrammo ancora in un paio di occasioni in compagnia di amici comuni, ma meno di un anno dopo questi avvenimenti Benito purtroppo ci lasciò. L'articolo venne riprodotto in alcune parti anche sulla Rivista Mensile del Club Alpino Italiano.

[...] Come si può proteggere meglio la montagna? Lasciando che venga dimenticata oppure insegnando alla gente un turismo più responsabile? «La montagna deve essere abitata e lavorata. Senza il lavoro dell’uomo, l’ambiente naturale in breve tempo si riempie di cespugli e spine che entrano fin dentro la porta di casa. Soltanto quando si tiene sotto controllo l’espandersi della vegetazione è possibile salvaguardare l’integrità del territorio, mentre quando la gente non può più andare a camminare il dissesto idrogeologico è sempre in agguato. Mi dispiace invece osservare che da parte di alcuni “cittadini” esiste un pregiudizio di fondo verso i montanari che lavorano e sistemano la vegetazione. A livello globale ci sarà un pericolo deforestazione, ma a casa nostra dobbiamo anche stare attenti che il bosco non finisca per mangiarsi i paesi».
Ti senti più alpinista o montanaro? «Montanaro, la risposta è ovvia. È per una questione di rispetto per la montagna. Quando andavo ad arrampicare insieme a Franco ci capitava di rinunciare ad una salita se ci accorgevamo che il tempo meteorologico volgeva al brutto: la via sarebbe rimasta comunque lì ad aspettarci, ma la nostra pelle era una sola. Questo tipo di sensibilità mi viene per il fatto di essere un montanaro, e perché vivo in alta quota tutto l’anno. È anche un fatto di umiltà: quando si visita un posto nuovo, vale anche per il sottoscritto, è buona regola chiedere informazioni alla gente del luogo e non assumere l’atteggiamento dei finti esperti. L’anno scorso, mentre praticavo un po’ di manutenzione su un sentiero dell’Alpago tagliando alcuni alberi che ostacolavano il passaggio, mi sono sentito apostrofare da alcuni “turisti” preoccupati per le sorti del patrimonio vegetale. Ho ribattuto che stavo soltanto lavorando per la loro comodità: in fin dei conti io riesco a camminare anche sul terreno disagevole, mentre sono loro ad aver bisogno di itinerari larghi e pianeggianti» [...].

mercoledì 24 ottobre 2018

LE PALE BRUCIANO

Le Pale di San Lucano, da Col di Pra
Le Pale di San Lucano nel bel mezzo di un incendio di grandi proporzioni. Uno degli angoli più affascinanti e straordinari delle Dolomiti avvolto da una nuvola di fumo marrone sporco e denso che tracima dall'Agordino prima in Valbelluna, poi ancora oltre in direzione della pianura veneta. Nevicata di cenere lungo l'intero percorso della nube, facilitata dal vento favonio caldo e secco di questi ultimi giorni.
Questa la prima ricostruzione dei fatti di oggi, come riportata sul Corriere delle Alpi di Belluno. La responsabilità sembra vada attribuita nuovamente ai cavi dell'alta tensione, tranciati dalla vegetazione abbattuta dal vento. Non sarebbe la prima volta: anche qualche anno addietro un incidente simile ebbe luogo alle pendici del monte Zélo, in località La Muda, sempre lungo il corso della Val Cordevole ed in circostanze del tutto analoghe.

Decenni di abbandono sistematico della montagna, di ricrescita selvaggia e non controllata della vegetazione ad alto fusto (in provincia di Belluno non abbiamo certo problemi di deforestazione!) e di scarsa o nulla manutenzione delle infrastrutture già esistenti non possono che determinare situazioni come quella che stiamo osservando oggi. Poveri Monti Pallidi.

martedì 16 ottobre 2018

25 ANNI DOPO

La Pita sul Serva, logo del Coro CAI Belluno
Quest'autunno del 2018 cade un importante anniversario, e più avanti in questo post vi racconterò quale. Per introdurlo, ricorrerò ad una breve citazione dal volume Civetta, tra le pieghe della parete di Paola Favero (Torino, Priuli & Verlucca, 2007). Il brano è preso dal capitolo intitolato I Tuaregh, nomadi del deserto, che racconta una salita avventurosa degli alpinisti Claudio Moretto e Rosy Buffa sulle pareti della Civetta avvenuta nell'estate del 2003.
Ecco... è notte, finalmente tutto tace: colpi di martelli che piantano chiodi, grida di richiamo, rumori di sassi che inevitabilmente cadono, il suono stesso del corpo che, impegnato in sforzi estremi e costretto a posizioni innaturali, respira affannato e spinge i battiti del cuore oltre il normale. Adesso finalmente c'è solo una grande quiete, che sembra diffondersi dolce in ogni anfratto, in ogni piega della parete.Sotto si vede la luce del rifugio Tissi, così carica di promesse e al tempo stesso così lontana. D'un tratto, piano piano, cominciano a salire dalla Val Civetta le note dei canti di montagna che qualcuno sta intonando attorno alla croce: è già tardi, ma questa è una notte speciale, poiché si ricorda il 40° anno dall'inaugurazione del rifugio. Il guerriero dello specchio, l'amante, il mago delle nuvole e tanti altri sono là, e guardano su, seguendo la sagoma della nera parete, dove i loro stessi sogni si sono impigliati... dai ghiaioni della base ai primi risalti e poi oltre, il loro sguardo sale verso l'alto, fino ad arrestarsi in corrispondenza di quella piccola luce, quel piccolo segno di vita, acceso da Claudio e Rosy che stanno bivaccando.
Quei canti di montagna in una notte di luna, nei pressi del rifugio Attilio Tissi alla fine di agosto del 2003 erano eseguiti come fuori programma post concerto dal Coro CAI di Belluno, che quest'anno 2018 celebra il primo quarto di secolo dalla propria fondazione. Come faccio a saperlo? Beh, sono un testimone diretto poiché proprio quella sera facevo parte del gruppo di cantori. Sono anche un membro fondatore del coro stesso, sebbene a distanza di tanto tempo le nostre strade si siano nel frattempo separate. Ad ogni modo, il traguardo dei venticinque anni è una ricorrenza rispettabile e mi sembrava simpatico rievocare questo episodio, quando perfino le note musicali si arrampicarono letteralmente sulle pareti della Civetta. Auguri al Coro CAI Belluno!

mercoledì 10 ottobre 2018

SOPRA LE NUVOLE

Il gruppo della Civetta, dal Mont'Alto di Pelsa
All'inizio è soltanto la Mussaia, celeberrima strada bianca sul fondo di un vallone dolomitico un tempo transitabile per le bestie da soma, ed oggi per le bestie da zaino. Capanna Trieste, rifugio Vazzoler, case Favretti, malghe di Pelsa: uno potrebbe pensare che a percorrere a piedi un vallone così si rischia di perdere la voglia di andare in montagna una volta per tutte, ma il fatto è che già dalla partenza a Listolade il panorama di guglie rocciose ti si apre intorno come da una vetta alpina, e i Cantoni di Pelsa sono schierati in parata come nelle grandi occasioni. Non è una situazione che stufa, al contrario si intuisce che il bello deve per forza venire più avanti.
Civetta: qui è nato il sesto grado, raccontano gli storici dell'alpinismo. Ma noi siamo semplici camminatori ed in questo crepuscolo di settembre ci sciroppiamo anche un bel nebbione che era già consistente a casa nostra in Valbelluna per diventare sempre più denso a ridosso delle pareti. Infine, ormai giunti sui pascoli davanti alla Torre Venezia, la cortina di umidità cede il passo al pallido sole autunnale e decidiamo che vale la pena di proseguire alla volta della meta prefissata.
L'ascensione al Mont'Alto di Pelsa arrivando dalla Val Corpassa è una delle gite più facili e panoramiche di tutti i Monti Pallidi. Soltanto il dislivello non indifferente merita un po' di riflessione preventiva sul proprio grado di allenamento. Ma una volta giunti in prossimità della cima erbosa, se si ha la fortuna di indovinare la giornata giusta dal punto di vista meteorologico, si gode di un punto di osservazione privilegiato: davanti a noi si erge in tutta la sua grandezza la civitas dolomitica per eccellenza, con tutti i suoi punti di forza e di debolezza. Le numerose frane che negli ultimi decenni hanno interessato le pareti della Civetta stanno lì a testimoniarlo. In (quasi) nessun altro posto all'ombra delle Dolomiti si gode di un panorama simile a questo.
La vetta del Mont'Alto
Proseguendo sulla schiena della lunga cima del Mont'Alto, l'impressione è quella di cavalcare le nuvole che presto o tardi, lo sappiamo bene, si stringeranno di nuovo intorno a noi spegnendo i colori e limitando la portata della nostra vista. Il clima delle nostre vallate a volte è un po' così: cielo, terra e nuvole si scambiano i ruoli e ci stanno a guardare divertiti, mentre noi ci montiamo la testa per nulla e crediamo di aver vissuto qualcosa di storicamente irripetibile.

Sabato 28 settembre 2013
GRUPPO DELLA CIVETTA, Monte Alto di Pelsa (m 2417), partenza e ritorno da Capanna Trieste in Val Corpassa.

1300 m dislivello in salita, giornata molto nebbiosa fino all'altezza delle Case Favretti, poi sereno e limpido fino in cima.

sabato 6 ottobre 2018

ALL'IMPROVVISO, IL MAGO

Manolo alla Libreria Tarantola (Belluno, 5 ottobre 2018)
Maurizio Zanolla, in arte il Mago, per gli amici e la famiglia Manolo: una breve e folgorante apparizione in quel di Belluno nei locali della Libreria Tarantola per la promozione della sua opera prima Eravamo immortali (Fabbri Editori), presentato al pubblico ed intervistato dal comune amico Tito De Luca. Manolo, sessant'anni compiuti da pochi mesi e quasi abbordato da un'ex giornalista della RAI, a suo dire ammaliata dai suoi occhi azzurri e profondi. Manolo, che spende con entusiasmo un'ora del suo tempo (ma non di più, perché le chiacchiere stufano presto, sostiene lui) per raccontare il suo libro, da lui stesso definito come il pagamento di un debito di riconoscenza verso la sua buona stella.
Quasi tutti i lettori sostengono che non si tratta di un libro tecnico di montagna e scalate in senso stretto, ed in effetti è proprio vero: Eravamo immortali tratta soprattutto del mito dell'evasione e della fuga, che nel caso del protagonista non è tanto un mito quanto piuttosto la realtà. A Manolo piaceva letteralmente evadere già quando era piccolo dallo sguardo vigile e dalla sorveglianza dei nonni, i quali nel tentativo di limitare la sua vivacità avevano perfino costruito una specie di rete da pollaio per poterlo sorvegliare meglio. Più avanti negli anni, ormai adulto, Manolo sceglie ancora di evadere da un avvenire sotto forma di fabbrica ed inquadramento operaio per guadagnarsi da vivere come rocciatore addetto a disgaggi e lavori in quota: «Era un lavoro pericoloso, sgobbavo anche sedici ore al giorno con pala e piccone ed era senza dubbio peggio della fabbrica da cui ero fuggito, ma almeno stavo all'aria aperta ed a me andava bene così».
Tito De Luca intervista Manolo
E poi la scoperta della roccia, una nuova partenza dopo la parentesi assai poco stimolante delle gare di atletica durante le quali, vincendo quasi senza impegnarsi, addirittura si annoiava e sentiva di non meritare affatto il traguardo del podio: «Arrampicavo per la prima volta, non conoscevo neanche il nome delle vette attorno a casa mia, ignoravo del tutto chi fossero i vecchi dell'alpinismo ed avevo perfino paura della montagna e delle pareti. Ma attraverso la scalata ho imparato a superare le mie paure, anche quelle della vita». Manolo entra da subito in confidenza con la croda: «La roccia non mi sembrava dura e repulsiva, anzi. Sotto le mie mani sembrava deformarsi e diventare una specie di cuoio morbido, e le sue rughe rappresentavano gli appigli dove avrei potuto attaccarmi».

Ma i tempi sono cambiati, anche in montagna: «Quando eravamo bambini aspettavamo impazienti e con curiosità il passaggio di qualche rara automobile sulle vie dei nostri paesi. Ora avviene piuttosto il contrario, e bisogna attendere ore per riuscire ad attraversare la strada incolumi».

mercoledì 3 ottobre 2018

FAGGI NELLA NEBBIA

Il sentiero alto per il rifugio Semenza
Montagne nebbiose nel senso di scomode, problematiche, assai poco disneyane e spesso labirintiche, da queste parti ne abbiamo da vendere. Su alcune non ci metterei piede neanche a pagamento: esistono alcuni rilievi a ridosso della val Piave, e mi riferisco in particolare ai Monti del Sole o certe impervie vallate che risalgono i ripidi fianchi della Schiara, che costituiscono dei mondi a parte soltanto per iniziati. Qui, un escursionista inesperto come il sottoscritto potrebbe smarrirsi dopo un'ora e girare a vuoto fino all'esaurimento delle risorse fisiche. Altre lande sono meno repulsive, ma vanno comunque trattate con rispetto.
Con pensieri simili a questi, un giorno d'autunno risalgo da solo il sentiero dapprima boscoso, in seguito erboso, roccioso ed a tratti un po' aereo che conduce da Pian de le Lastre al rifugio Semenza. Mi trovo in Alpago, in prossimità dei boschi di faggio della Palantina che in ottobre diventano gialli e rossi come il fuoco nel caminetto. Il tempo meteorologico non è dei migliori, anzi: sopra i mille metri di quota staziona da ore un grigio uniforme e denso, nonostante le previsioni non abbiano preannunciato fenomeni degni di preoccupazione.
Il proposito della giornata consisterebbe in un giro ad anello di perlustrazione, con discesa lungo la Val Salatis dove sono già stato due volte ma soltanto diversi anni prima. Non ho particolare passione di andare in montagna da solo, ed anche stavolta non lo faccio per scelta: semplicemente, due amici ai quali avevo chiesto di accompagnarmi mi hanno tirato il proverbiale bidone. Mettendo insieme queste due situazioni problematiche - mi riferisco alla situazione meteo instabile ed all'uscita in solitaria - parto a piedi da Col Ìndes con la riserva mentale di limitarmi ad una breve passeggiata panoramica fino al rifugio Semenza, con un breve sguardo dalla testata della Val Salatis prima di voltarmi e tornare indietro sui miei passi.
Il soggiorno in rifugio è breve e soddisfacente (mi concedo una tazzona di tè caldo ed una fetta di torta), ma sono soltanto le undici di mattina e finalmente le pesanti nebbie che stazionavano sotto il monte Cavallo si convincono che è ora di sublimare nell'atmosfera. Ad un certo punto esce perfino il sole ed allora decido di proseguire la mia escursione con la massima calma, senza ritornare subito alla base.
Per quanto semplice ed volte perfino banale, mi piace giocare con i significati durante le mie escursioni a piedi del fine settimana: al di là delle altimetrie e delle prestazioni sportive, spesso mi sorprendo ad interrogare me stesso su quale possa essere il messaggio o l'insegnamento che potrei trarre dall'uscita che ho appena completato. La Val Salatis rappresenta un percorso falsamente addomesticato: sebbene priva di difficoltà tecniche sul suo percorso "segnato", due decenni addietro fu segnata da un tragico evento quando una comitiva di escursionisti venne sorpresa da un temporale estivo e smarrì l'orientamento; la maggior parte del gruppo venne ritrovato alla spicciolata nei boschi in stato confusionale, mentre alcuni sfortunati morirono assiderati in pieno luglio, con l'abbigliamento pesante ancora piegato nello zaino. Fu la sconvolgente dimostrazione di cosa il freddo improvviso può provocare sul fisico umano.
Nebbia in Val Salatis
Capacità di orientamento, e furbizia nel sapersela cavare nelle situazioni di emergenza: questi i concetti che scelgo di portarmi a casa mentre completo l'anello della Val Salatis e rientro a Pian De Le Lastre per una meritata birra schiumante. Conoscere il territorio, prendere confidenza con le cartine topografiche, mai azzardare il tutto per tutto ed escogitare sempre un piano B se le cose si mettono male. Benvenuti anche i moderni strumenti elettronici di georilevamento, ma senza darli per scontati. In breve, affrontare la montagna con i piedi leggeri, come il grande Franco amava sempre ripetere: l'alpinista più bravo, sono parole sue, è colui che riesce a portare con dignità le scarpe da vecchio.

Domenica 1 ottobre 2017
Anello della Val Salatis da Pian de le Lastre - Alpago (BL)
17 km x 1100 m dislivello in salita, 5 h percorrenza su sentieri isolati e solitari
Meteo grigio e nebbioso in mattinata, poi sole e caldo
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