giovedì 27 giugno 2019

IL RAGNO DELLE DOLOMITI

Ho conosciuto Cesare Maestri a Feltre nel mese di marzo del 2006, durante una conferenza organizzata nei locali della sede universitaria dello IULM, e già allora avevo letto quasi tutti i suoi libri. Collaboravo da qualche tempo col Corriere delle Alpi di Belluno, al quale consegnai in seguito questo articolo per documentare l'incontro pubblico.
L'alpinista di Campiglio mi ha sempre ispirato una certa dose di simpatia per i suoi trascorsi avventurosi ed il suo modo scanzonato, a tratti addirittura irriverente, di affrontare la montagna, il rischio e le avversità della vita. Certo, la mia idea personale di approccio con l'ambiente naturale è diametralmente opposta alla sua, ed al giorno d'oggi certe sue esperienze ed atteggiamenti protagonistici assunti in gioventù risulterebbero di certo fuori posto.
Ma si tratta appunto di peccati di gioventù, se proprio peccati vogliamo definirli: in più di una occasione (anche durante la conferenza descritta nell'articolo) Cesare stesso ha infatti espresso una parziale autocritica riguardo agli episodi maggiormente sopra le righe, e dunque la mia stima nei suoi confronti rimane immutata.
Trascuro in via del tutto intenzionale di soffermarmi o di esprimere giudizi sulle sue esperienze alpinistiche in terra patagonica poiché non possiedo le informazioni, né i titoli per sottoscrivere qualunque posizione su questo argomento.

FELTRE. Cesare Maestri non dà proprio l'impressione di essere una persona che si accontenta o persegue la comodità come massimo valore della vita. Per rendersene conto basta analizzare la sua esperienza personale di alpinista. Proviene da una famiglia di attori, suo fratello era un doppiatore cinematografico di talento ed anche per il giovane Cesare, che nel primo dopoguerra non era ancora il Ragno delle Dolomiti, l'avvenire sembrava prospettare inizialmente una carriera nel mondo dello spettacolo. «Ho scelto un palcoscenico diverso per la mia vita», confessa tuttavia l'anziano scalatore trentino tornando con la memoria alle scelte di vita intraprese sessant'anni addietro: «Nelle poche pellicole di montagna che ho girato, l'unico ruolo che riuscivo ad interpretare bene era quello di me stesso. Non si trattava decisamente di un mestiere adatto al sottoscritto. Non ho mai risolto fino in fondo il dilemma se gli attori abbiano così tanta personalità da poter assumere nello stesso tempo ruoli diversi, oppure al contrario se non posseggano una identità propria».
Non ha mezze misure l'anziano alpinista di Madonna di Campiglio, intervenuto nel pomeriggio di giovedì scorso allo IULM di Feltre come ospite del ciclo di incontri Testimoni di valori umani e sociali. Proprio il tema principale della conferenza della quale è stato relatore, il coraggio, mette in luce Cesare Maestri come una personalità che predilige le scelte nette: «La sindrome dell'eroe è sempre stata nel bene e nel male una mia caratteristica fin dagli anni della gioventù, è questo il modo in cui non posso fare a meno di vedere me stesso, sono un esibizionista inguaribile. Col passare degli anni questo atteggiamento si è certamente trasformato: da giovani si crede di poter cambiare il mondo, mentre in seguito si scopre che è sempre l'ambiente esterno a condizionarci e ad avere l'ultima parola».
Non dobbiamo tuttavia commettere l'errore di credere che stiamo parlando di una virtù concessa per grazia ricevuta solo a poche persone. «Coraggio e paura stanno sempre fianco a fianco dentro ognuno di noi,» spiega Maestri davanti alla platea di studenti universitari e appassionati della montagna, «proprio la paura insita in ogni essere umano è il vero termometro per misurare quanto riusciamo ad essere positivi anche nei momenti difficili». Ed è alla luce di queste considerazioni che il primo, celebrato salitore del Cerro Torre rievoca alcuni degli episodi della sua esistenza da lui ritenuti più formativi: i duri anni della guerra, quando per pochi amanti del rischio era possibile sbarcare il lunario anche ricorrendo a piccoli furti e sabotaggi nelle caserme nazifasciste; le temerarie scalate degli esordi sulle cime di Brenta e la decisione di cominciare ad andare in montagna rigorosamente da solo; l'ultima grande avventura extraeuropea vissuta solo quattro anni addietro, durante il tentativo di salita sugli 8000 metri dello Shisha Pangma sul tetto del mondo.
«Quando praticavo l'alpinismo da dilettante, un'attività scoperta per caso e che è diventata col tempo la mia occupazione quasi a tempo pieno, confesso di essere stato in verità anche un po' incosciente», racconta ancora Maestri. «Vedendomi scalare in solitaria, molte volte anche in discesa e senza ricorrere alle corde doppie, erano in molti gli esperti di montagna che profetizzavano il mio imminente decesso per eccessivo disprezzo del rischio. Se sono sopravvissuto, e sono ancora qui oggi a raccontarlo, lo devo agli allenamenti quotidiani, alla padronanza della tecnica e al rispetto verso la roccia». A titolo di spiegazione, Cesare sottolinea tuttavia anche la difficile situazione economica caratteristica degli anni del secondo dopoguerra: «Non mi vergogno di raccontare che una volta ho perfino accettato un assegno dal direttore di un giornale come compenso per andare a percorrere una via. Oggi questo modo di fare potrebbe sembrare inopportuno, ma in quel tempo era anche così che mi guadagnavo da vivere. Mi sentivo un artista, e nel ruolo creativo che è proprio degli artisti mi sentivo autorizzato a vendere il mio prodotto, come se si fosse trattato di un quadro o una scultura».
Prima dei saluti finali, molti tra gli spettatori propongono interrogativi sollecitando il giudizio tecnico del relatore. Esiste un'età giusta per smettere di arrampicare?, chiede qualcuno tra il pubblico: «Io ho lasciato l'alpinismo di punta abbastanza presto,» è la risposta di Maestri, «ma non per questo ho rinunciato ad andare in montagna o a mettermi in discussione con nuove sfide. Non esiste un'età per tirare i remi in barca, bensì piuttosto un momento per cominciare a rivedere i propri obiettivi ed accontentarsi di ciò che sta alla nostra portata».

venerdì 21 giugno 2019

INGORGHI DI STAGIONE

Giunge infine il solstizio del 21 giugno, e nella serata più lunga dell'anno tutto sembra suggerire l'imminenza di un'estate assai torrida (magari mi sbaglierò, ma le previsioni meteorologiche a breve termine puntano tutte in questa direzione). Alle basse quote con ogni probabilità sarà senz'altro così, ma da tempi immemorabili chi abita le Terre Alte è abituato al fatto che non esiste nulla di più sfuggente, sfumato, precario ed effimero rispetto a quanto per convenzione ed abitudine nominiamo la bella stagione. Le diverse epoche dell'anno vanno, vengono, si incrociano, si sovrappongono: uno crede per esempio di trovarsi in piena estate, quand'ecco che una spietata perturbazione anomala lo riporta a pieno titolo fra le braccia del Generale Inverno in men che non si dica.
A puro titolo di esempio pubblico questa sera alcune immagini scattate giusto dieci anni addietro nelle vicinanze del Passo Pordoi, e più precisamente lungo il tracciato del sentiero Viel Dal Pan: l'uscita in questione aveva avuto luogo insieme ad alcuni amici alla fine del mese di luglio e dunque con le fioriture d'alta quota ormai in fase avanzata, ma la neve aveva deciso ugualmente di metterci lo zampino. Per la cronaca, il giorno seguente sul vicino Piz Boè neve e ghiaccio vetrato si comportavano da padroni incontrastati.
Per fare fronte a questa e ad altre situazioni incresciose, lo zaino dell'escursionista anche di media montagna, come del resto allo scrivente piace immaginarsi, dovrebbe di preferenza contenere una dotazione essenziale di equipaggiamento quattro stagioni, come del resto già avviene con la pizza e la sacra automobile. A tale proposito ho osservato in più occasioni come il mio bagaglio domenicale non presenti in effetti molte differenze fra estate ed inverno: buona parte dell'abbigliamento del camminatore, nonostante la concreta possibilità di restare inutilizzato, deve ugualmente rimanere di scorta nello zaino da trentacinque litri per ogni evenienza. Chissà... magari sono sulla buona strada!

giovedì 6 giugno 2019

LE AVVENTURE DEL MORETTO

Non mi piace scrivere sempre di me stesso, e ripropongo dopo qualche anno questa recensione già pubblicata nel 2006 nel mio precedente blog su piattaforma Splinder. Si tratta di una biografia che ho letto per la prima volta nell'anno del mio servizio civile alla fine dei Novanta, e che in qualche modo ha segnato il mio immaginario giovanile. Vivesse ai giorni nostri, il protagonista di questa storia verrebbe annoverato fra i cosiddetti cattivi: bombarolo, terrorista, mercenario, addirittura persecutore dei Nativi Americani. Questi sono gli appellativi che forse gli verrebbero assegnati. Ma era un'altra epoca, e non bisogna commettere l'errore di giudicare la storia col modo di pensare di oggi: il Moretto, com'era conosciuto Carlo di Rudio nell'infanzia bellunese, fu di certo anche trascinato dalle circostanze ed è il testimone di un tempo nel quale viaggiare fino all'altro capo del mondo era un'impresa ed un'avventura per pochi. Qualcuno partiva con destinazione incerta, pochi sopravvivevano e quasi nessuno tornava. Egli stesso non fece eccezione.

Il 25 giugno 1876, sono passati oltre 140 anni, si combatteva sulle praterie nordamericane la battaglia del Little Bighorn in cui perse la vita il colonnello George Armstrong Custer. La storia è stata rievocata, spesso con una buona dose di fantasia aggiunta, in un numero imprecisato di pellicole cinematografiche: se tra i lettori del blog si annida qualche appassionato di fumetti Bonelli come Tex o Magico Vento non ci sarà certo bisogno di raccontare ancora un volta cosa avvenne in quel combattimento tra Pellerossa e Giacche Blu. Mi piace tuttavia ricordare questo episodio storico perché ad esso prese parte anche un mio compaesano.
E non mi riferisco al già famoso Giovanni Martini, che era Campano di origine e fu il trombettiere di giornata di Custer portatore della richiesta di aiuto indirizzata al Maggiore Frederick Benteen: sul campo di battaglia quel giorno, oltre a numerosi altri italiani, c'era infatti anche il bellunese Carlo Camillo di Rudio, nato ai piedi del monte Serva nel 1832 e morto a Pasadena il 1 novembre 1910. A titolo di documentazione, per quanto desiderassero approfondire questa affascinante narrazione, segnalo il libro Dal Piave al Little Bighorn, scritto nel 1996 da Cesare Marino e dato alle stampe a Belluno da Alessandro Tarantola Editore.
Impiegherò solo poche righe per raccontare in breve cosa combinò in giro per il mondo questo irrequieto personaggio. Carlo era figlio del conte Ercole Rudio ed apparteneva alla nobiltà spiantata della cittadina dolomitica. Dopo un esordio di carriera come cadetto austriaco, venne coinvolto nei moti del Risorgimento italiano: prese parte ai combattimenti di Venezia e della Repubblica Romana nel 1848, fu amico di Pietro Fortunato Calvi e Giuseppe Mazzini, conobbe Giuseppe Garibaldi. Nel 1858 partecipò all'attentato contro Napoleone III in complicità con Felice Orsini ma venne catturato e deportato nella colonia penale della Cajenna. Riuscì tuttavia ad evadere e a rientrare di nascosto in Europa dopo pochi mesi di reclusione.
Ma nel vecchio continente la terra gli scottava ormai sotto i piedi, tanto che a trentun anni di età anni il Nostro sbarcò a New York dove proseguì la sua carriera militare arruolandosi nell'esercito degli Yankees e finendo a combattere nella Guerra di Secessione. Diventato Charles DeRudio, il nome che compare ancora oggi sulla sua tomba a San Francisco, il nobile bellunese venne aggregato al Settimo Cavalleggeri di Custer e passò ancora una volta indenne attraverso l'epico scontro tra Capelli Gialli, Sitting Bull e Crazy Horse. Incredibile a dirsi, morì tranquillamente di vecchiaia assistito dalla sua famiglia, sebbene in patria al giorno d'oggi quasi nessuno ricordi più il suo nome.