giovedì 11 luglio 2019

IL DILEMMA DEL RICCIO

Le alte temperature imperversano, e credo pochi di voi abbiano un'idea anche approssimativa di quanto sforzo comporti alzare una penna per mettersi a scrivere. Si avvicinano anche le ferie, e nelle prossime settimane il blog continuerà ad essere aggiornato con qualche contenuto d'archivio che non mi farà di certo imperlare la fronte di sudore. Quello, come sempre, lo riservo di buongrado ai sentieri. La via prosegue senza fine.
Si comincia con questa intervista d'annata a Luca Visentini e Mario Crespan, rilasciata all'inizio del mese di agosto del 2003 durante la premiazione del Pelmo d'Oro a loro assegnato nella sezione della cultura alpina, e pubblicata sul Corriere delle Alpi di Belluno nei giorni successivi. I contenuti mi sembrano ancora piuttosto attuali. Oltre a provare un po' di nostalgia per quei giorni, mi viene spontaneo il seguente sottotitolo: "quando il passato era ancora futuro". Un caro saluto a Luca e un commosso ricordo per Mario, scomparso ormai da qualche anno.
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BELLUNO. Un approccio alla montagna ed all'alpinismo che sia il più possibile rispettoso e "pulito", non inteso come semplice nostalgia del tempo passato bensì aperto all'esigenza di preservare l'integrità dell'ambiente montano e la fisionomia originale dei profili delle vette. A margine della recentissima consegna del premio Pelmo d'Oro, che ha visto la loro affermazione nella sezione dedicata alla cultura, Luca Visentini e Mario Crespan delineano i tratti fondamentali del pensiero che da diversi anni a questa parte ne orienta i passi nella loro opera di divulgazione editoriale, letteraria ed artistica della montagna veneta. «È importante che chi frequenta la montagna per scopi escursionistici, alpinistici o semplicemente turistici lo faccia in modo leale,» esordisce Luca Visentini, «semplicemente perché non vogliamo che le montagne vengano rovinate o sconvolte nella loro morfologia». Editore e scrittore di montagna con all'attivo numerose guide alpinistiche il primo, disegnatore e grafico professionista il secondo, Visentini e Crespan hanno avviato da alcuni anni a questa parte una proficua collaborazione che ha dato luogo a pregevoli pubblicazioni dedicate a diversi gruppi montuosi dell'area dolomitica.
Prendendo spunto dalla motivazione della giuria del Pelmo d'Oro, che si è soffermata sulla vostra attività di invito alla montagna, quale significato sottintende al giorno d'oggi parlare di cultura di montagna? «Pubblicando testi di altri autori, oppure scrivendo in prima persona, amo privilegiare un determinato modo di intendere l'alpinismo», spiega Luca Visentini: «Un modo di procedere "pulito" a mio parere è indispensabile per una corretta cultura della montagna. Dico questo perché sempre di più va invece diffondendosi un utilizzo "sporco" dell'ambiente alpino fatto di spit, vie ferrate, funivie ed altri mezzi artificiali. In particolare gli spit, oltre ad essere inquinanti, possono essere definiti come un trucco utilizzato dalla maggioranza per elevare a dismisura le difficoltà, allontanandosi tuttavia sempre di più dalla dimensione dell'avventura che è una componente fondamentale dell'alpinismo. Ci troviamo in un periodo di "onda bassa" provocato dalla diffusione dell'artificiale, ed è dunque importante non perdere la memoria dei percorsi più tradizionali per un futuro in cui la gente avrà nuovamente bisogno di un approccio più naturale all'ambiente che la circonda».
Si tratta dunque di porre rimedio ai danni che la mentalità consumistica ha provocato anche in montagna? «Perfino lo stesso concetto di sicurezza concorre talvolta a sviare escursionisti ed alpinisti da un corretto rapporto con l'ambiente», prosegue Mario Crespan sulla stessa linea dell'amico e collega Visentini: «Al giorno d'oggi possiamo riscontrare addirittura una sovrabbondanza di mezzi di protezione che includono il telefonino, l'elicottero e tutta una serie di macchinari che possono arrivare sempre più in alto. Il risultato di questo atteggiamento consumistico trasportato in alta quota è che la gente non è più preparata fisicamente o mentalmente alla fatica, e sebbene si illuda di essere al sicuro poiché in possesso di un telefono cellulare, in pratica si rivela estremamente fragile. Un'altra conseguenza di tutto ciò è che la montagna finisce inevitabilmente per essere sempre meno frequentata, soprattutto nei luoghi più isolati dove occorre camminare molto per arrivare alla base delle pareti».
Sempre a proposito di abbandono della montagna, è proprio impossibile trovare una via di mezzo che permetta di evitare sia il saccheggio dell'ambiente, sia lo spopolamento dei borghi alpini e dei pascoli? «È certamente difficile trovare un punto di equilibrio», sottolinea ancora Visentini, «poiché oggi è di moda un turismo che assomiglia molto alla TV spazzatura. Bisogna tuttavia rendersi conto che molto della situazione attuale dipende dall'offerta. I turisti che frequentano la montagna sono in un certo senso obbligati a seguire certi modelli di comportamento perché non hanno alternative, perché l'offerta sul mercato è quella che è. Ma come si possono valutare i gusti dei consumatori in assenza di una opzione valida? Le mode tuttavia passano, e presto verrà il tempo in cui le persone avranno bisogno di un rapporto meno artificiale con l'habitat d'alta quota». «È sempre il vecchio problema dei ricci che devono passare l'inverno», aggiunge Crespan: «Troppo vicini rischiano di trafiggersi, eccessivamente lontani finiscono invece per morire di freddo. Occorre trovare un'asse di equilibrio che consenta di volta in volta di stabilire dove fermare lo sviluppo alberghiero, in quali luoghi permettere la costruzione di rifugi e bivacchi e dove addirittura rimuoverli perché eccessivamente concentrati. È importante preservare la wilderness e nello stesso tempo ammettere un turismo più rispettoso. Ma per far questo è indispensabile allontanarsi da un modello di società dei consumi che ci propone tutto confezionato ed a scatola chiusa: perfino luoghi di formazione come la scuola o istituzioni culturali come i musei sembrano attualmente adottare sempre di più questa mentalità. Ci avete mai fatto caso? Durante le visite a mostre e cattedrali non è più possibile deviare dal percorso prefissato».
Cosa ci raccontate infine dei vostri prossimi progetti editoriali? «Solo per rimanere nell'ambito delle Dolomiti, in qualità di autori stiamo curando le parti finali di una pubblicazione sulle Pale di San Martino che uscirà tra un anno circa», conclude Luca Visentini: «Come casa editrice daremo invece presto alle stampe una guida sulle Pale di San Lucano opera dell'alpinista Ettore De Biasio, un libro di scalate nel Parco delle Dolomiti Friulane, ed infine un testo su Schiara e Tamer scritto dal bellunese Giampaolo Sani».

venerdì 5 luglio 2019

E BIRRA SIA

Ho dato inizio qualche mese addietro ad un filone di articoli intitolato Arriviamo tardi prendendo spunto ancora una volta da un luogo comune: la montagna come sinonimo di provincialismo, sofferente cronica di arretratezza e chiusura congenita nei confronti delle novità, roccaforte del bel tempo che fu con tutte le conseguenze positive e negative che questo ruolo comporta. Molte volte non si può negare una certa dose di attendibilità a questo modo di dire in origine assai semplicistico. In altri casi mi piace invece pensare che noi montanari stiamo talmente indietro in termini di mode, tendenze ed innovazione, se vogliamo prendere ancora per buona la tradizione della dimensione circolare del tempo, che rischiamo addirittura di trovarci in anticipo sul giro successivo come un orologio rotto o un atleta con le ruote sgonfie. Forse l'argomento che tratto di seguito, pur nella sua evidente leggerezza favorita dalla temperatura sopra le righe, rientra a buon titolo in questo paradigma come chiaro esempio di persistenza del passato nel tempo presente. E come ripetono i miei amici di Cavaso del Tomba, nur ein Schwein trinkt allein...

Esplode l'estate in tutto il suo potenziale termico e l'escursionista, tanto alla basse quanto alle alte quote, inevitabilmente entra in stato di sofferenza. Mi sembra dunque doveroso spendere un po' di tempo ed impegno sull'argomento birra, che senza tema di smentite può essere riconosciuta come la bevanda preferita dai camminatori di ogni età. Birra e montagna vanno a braccetto non soltanto perché chi frequenta le terre alta mostra di apprezzarla assai, ma soprattutto in quanto la birra è per ragioni storiche un prodotto delle vallate alpine, quasi sempre in abbinamento ad ingredienti, tecniche ed attrezzature fortemente legate ai luoghi d'origine. Dolomiti bellunesi e Pedemontana veneta rappresentano un caso esemplare di questa vera e propria simbiosi, tanto che i nostri territori hanno anche dato i natali nel corso degli anni a diverse associazioni impegnate a divulgare cultura e pratica della birrificazione casalinga. Se non è infatti accertato dal punto di vista scientifico che chi beve birra campa cent'anni, fuori da ogni ragionevole dubbio appare invece ormai la tesi che vorrebbe il produttore di birra per autoconsumo risentire così bene della natura genuina della propria creatura da arrivare in scioltezza fino al traguardo dei centoventi anni senza nemmeno un acciacco.
Scherzi a parte, avrebbe forse potuto uno come il sottoscritto prendere sotto gamba una simile sfida? No di sicuro: com'è universalmente noto, oltre ad apprezzare il prodotto finito possiedo un'innata curiosità nei confronti di ciò che al giorno d'oggi viene definito know how. Oltre al Cosa, per dirla con parole povere sono attirato anche dal Come. Certo non si è trattato di un'avventura facile: le primissime brodaglie zuccherose ed insipide, con la consistenza della polenta molle, non rappresentavano proprio un esordio incoraggiante: servì diverso tempo per prendere la dovuta confidenza con fermentatori, lieviti, procedure di sterilizzazione ed altre diavolerie.
Soltanto con molte prove ed errori imparai un trucco che si rivelò determinante per non essere travolto da quantità spropositate di pentoloni sporchi ed appiccicosi dai residui di malto: approfittare dei numerosi tempi morti per portarsi avanti col lavaggio dell'attrezzatura, prima e dopo l'uso. Altre soddisfazioni vennero in seguito: il primo fermentatore da cinquanta litri, le potenzialità offerte dal lievito liquido, la magia della macinatura del malto alla vigilia della cotta, l'efficacia insostituibile di una serpentina in rame per raffreddare nel più breve tempo possibile la pozione luppolata al termine della bollitura. Il momento culminante della mia breve carriera di birraio dilettante fu senza dubbio la scoperta di quella che per qualche anno ritenni la mia ricetta preferita: una bitter di colore rosso intenso in stile britannico, dolceamara al punto giusto e con una schiuma da favola: ho finito le ultime bottiglie del prezioso reperto un sacco di anni addietro, ed ancora oggi le rimpiango.
Inutile ad ogni modo soffermarsi sulle glorie passate: i momenti di crisi e gli incidenti di percorso sono molto più interessanti e perfino divertenti da raccontare. Venne per esempio la volta in cui mi cimentai con la produzione di quaranta litri di bière blanche, ma al momento dell'apertura del fermentatore distolsi lo sguardo inorridito: dal contenuto emanava una puzza inconfondibile e nauseabonda di uova marce, che mi spinse naturalmente a pensare al peggio: era forse all'opera una temibile infezione batterica che aveva compromesso la cotta? Già mi preparavo spiritualmente a gettare tutto nel lavandino, quando un amico più esperto mi raccomandò pazienza: potevo comunque provare ad imbottigliare, sperando per il meglio. Alla fine aveva proprio ragione lui: dopo la maturazione in bottiglia il tanfo era scomparso, riassorbito da qualche strano processo chimico - biologico. Sono situazioni in cui è meglio non porsi troppe domande: la birra venne regolarmente consumata senza alcun effetto collaterale, ed io sono tuttora in vita per raccontarlo.
Anche la fermentazione del mosto può comportare alcuni inconvenienti, soprattutto quando nei primissimi giorni della cotta la fase tumultuosa si trasfigura per diventare furibonda nel senso più proprio del termine. Incontrai questo problema durante una delle prime cotte di birra stout: la ricetta era particolarmente calorica, il lievito liquido partito con la rincorsa, il fermentatore aveva forse dimensioni troppo ridotte in proporzione alla quantità di liquido, tanto che la schiuma sotto pressione cominciò a fuoriuscire in modo costante ed ostinato dal piccolo sifone chiamato in gergo tecnico gorgogliatore, mentre io passai i successivi tre giorni  a ripulire con la spugna quella densa schifezza dalle piastrelle del bagno.
Negli anni successivi l'entropia lavorativa ebbe la meglio, tanto che da autonominato mastro birraio a chilometri zero diventai in breve tempo semplice appassionato di birra ad ettolitri zero. Finito il tempo del Come, mi restò il Cosa e ad ogni modo feci di necessità virtù.