giovedì 28 febbraio 2019

STORIA DI UN CHIODO

Una "lametta da barba"
Le vicende delle nostre montagne e degli uomini che le hanno frequentate sono fatte anche di piccoli oggetti, carichi di significato e ricordi. Oggi ne voglio ricordare uno in particolare, un utensile che ha molto a che fare con le pareti rocciose ma soprattutto con le sapienti ed abili mani del suo artefice: un chiodo da arrampicata realizzato in casa utilizzando forgia, (falce...) martello ed incudine. Se ne parla in almeno due libri dei quali riproduco qui di seguito alcuni passaggi significativi con i doverosi riferimenti, ma sono sicuro che quanti conoscono il contesto se ne ricorderanno bene.

Un giorno venne a trovarlo un amico.
«Varda qua», disse mostrandogli un chiodo, «ho trovà un ciodo dei polacchi sul Burèl.»
Franco lo prese e sorrise.
«Perché dei polacchi?»
«No te vede che l'è su la falce e 'l martel?»
«Peccato che i polacchi tutto i é fora che esser comunisti.»
Era un chiodo dei suoi. Uno di quei chiodi che aveva lasciato sulle pareti e che siglava col simbolo della sua più grande passione, perché fosse chiaro, fino in fondo, che neanche un certo tran tran, pur mettendocela tutta, l'avrebbe mai fatto arrendere. Lo guardò, con la sua curva, i colpi del martello, la punta lucida. Era un chiodo eccellente. Era meraviglioso, quel piccolo pezzo di ferro.

Luisa Mandrino, La Forza della Natura - Franco Miotto l'uomo dei viàz, CDA & Vivalda Editori, Torino, ottobre 2002.

Ero riuscito a notare ciò che nessun altro aveva visto prima, ed ero convinto oltre ogni ragionevole dubbio che proprio noi saremmo riusciti ad aprire la via. Intanto scalpitavo in attesa che Riccardo tornasse dal mare, e nel frattempo cominciai a preparare i chiodi: avevo escogitato di fabbricarne alcuni estremamente sottili in acciaio armonico che mi sarebbero serviti per penetrare le più sottili fessure. Ne avevo fatti di tutte le misure ed anche di cortissimi, non più di due centimetri ciascuno: li avevo soprannominati lamette da barba.

Franco Miotto, Pareti del cielo - passioni, storie e ricordi di una vita libera, Nuovi Sentieri Editore, Belluno, luglio 2010.

giovedì 21 febbraio 2019

SOGNARE, VIAGGIARE, CONOSCERE

Fausto De Stefani, dicembre 2005
Diversi anni fa scrivevo occasionalmente sul blog Intraisass su invito dell'amico Alberto Peruffo, e alla fine del 2005 pubblicai questo breve scambio di idee con l'alpinista Fausto De Stefani intervenuto in Veneto per una serata di presentazione di un suo libro. La versione integrale dell'intervista andò invece in stampa per il Corriere delle Alpi di Belluno negli stessi giorni. Ripropongo stasera il colloquio nella sua edizione corta, perché a distanza di quasi quindici anni mi sembra ancora attuale e pieno di riflessioni utili in materia di frequentazione sportiva o turistica della montagna.

Incontro per la prima volta Fausto De Stefani a Castelfranco Veneto, durante una manifestazione organizzata per promuovere e finanziare il suo progetto Una scuola professionale in Nepal. Devo all'amico Vittorino Mason il piacere di aver conosciuto questo personaggio, a dir poco fuori dal coro nonostante un coro vero e proprio, il mio, abbia precedentemente allietato la platea con un breve concerto natalizio.
Mi bastano pochi scambi di opinioni che subito penso: «Questo non sembra proprio un alpinista». Nessun malinteso, si tratta di un giudizio in senso positivo. La traduzione è: «Questo non è un conquistatore dell'inutile». È lo stesso Fausto a confermare il mio giudizio poco dopo: «Lionel Terray mi ha insegnato molto».
Fausto, che significa la tua affermazione «Vado alla ricerca di oasi, dove il pensiero e i sogni camminano parallelamente»? «La natura per me è favola, magia, mistero, sogno», risponde lui: «Credo che attraverso i sogni e la magia delle parole sia possibile viaggiare, sia possibile la conoscenza».
E cos'è allora la favola, lo incalzo ancora. «Non è solo fantasia, perché la favola contiene una buona dose di autenticità. Ma si tratta di una realtà che viene colorata dalla nostra soggettività: non esistono rumori, ci sono bensì suoni e armonie della natura che bisogna imparare ad ascoltare e distinguere».
Ma tu sei anche famoso per la ricerca dell'essenzialità nell'attrezzatura e nella dotazione tecnica, giusto? «La cosa più importante per me è la qualità dell'esperienza. Trovo che abbia più valore camminare su un sentiero in un bosco di faggi o abeti, piuttosto che attaccarsi alle funi metalliche di una via ferrata».
Dove se ne sta andando l'alpinismo? Che fine farà? «Sulla vetta del K2 si prova l'emozione di vedere l'orizzonte con una forma diversa, e non è facile rassegnarsi al fatto che finisca tutto lì: vogliamo di più. Questo fa parte della natura umana. Io tuttavia ho scelto di convogliare questo spirito di conquista verso vette di un altro tipo, non quelle tradizionali bensì altre più vicine alla nostra comunità umana. Sono fatto così: non riesco a scindere l'amore che ho per la montagna dall'impegno nelle tematiche sociali e ambientali».
È tardi quando esco dal ristorante Tamburello e risalgo in corriera con gli altri colleghi coristi alla volta di Belluno. Attraversando la marca trevigiana immersa nella notte la mia fantasia cammina altrove. In una remota vallata del Tibet, probabilmente.

giovedì 14 febbraio 2019

I MONTI DE VENEXIA

I boschi di Palantina, inverno
Li hanno chiamati The Mountains of Venice come promozione pubblicitaria, e per quanto riguarda i Monti Pallidi gli autori della campagna hanno senz'altro fatto centro dal punto di vista storico: la Serenissima per diversi secoli si è rifornita di legno pregiato nelle foreste del Cadore e del Cansiglio per alimentare la potenza militare e mercantile del proprio arsenale. Anche al giorno d'oggi, se vogliamo dirla proprio tutta, i Monti de Venexia sono generosi assai con la pianura veneta dispensando in abbondanza acqua di fiume e corrente elettrica a vantaggio di industrie e consorzi irrigui. Può darsi che il marchio rappresenti una scelta indovinata anche dal punto di vista commerciale. Forse, chissà.
Ad ogni modo, viva soddisfazione viene espressa in merito ai Monti de Venexia da parte dei Veneziani stessi, che a breve non accoglieranno forse più le grandi navi davanti a Palazzo Ducale e gradiranno dunque un premio di consolazione; i Bellunesi preferiscono invece storcere leggermente il naso, allergici per consuetudine a qualsiasi argomento riguardi l'acqua alta; i Trevigiani
I boschi di Palantina, autunno
potrebbero quasi sentirsi trascurati di fronte a questa inattesa manovra di aggiramento («Ma si saranno dimenticati di noi...?»). I più contrariati sono tuttavia i Trentini, che sostengono di aver prima contribuito a pagare la promozione turistica della fondazione Unesco per poi esserne tagliati fuori: ma sono sicuro che se ne faranno una ragione, considerata la loro precedente Anschluss sul comprensorio della Marmolada e il fatto che di fronte a quella montagna ogni altro problema apparirà di certo irrilevante.
Una considerazione conclusiva del tutto personale. Non c'è nulla da fare: arriviamo sempre tardi. In questo paese, e noi montanari non facciamo eccezione, stiamo sempre a discutere di parole ma mai di fatti: siamo proprio convinti che per essere innovatori sia sufficiente cambiare il nome alle cose. Poi, è vero che in alcuni casi arrivare tardi può rivelarsi una fortuna o un punto di vantaggio. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 7 febbraio 2019

UN PONTE SENZ'ACQUA


Una delle iscrizioni sul Volt, anno 1838
Domenica 6 Maggio 2018: PREALPI BELLUNESI, Volt de Val d'Arch (m 1000 ca).

Paesaggi e montagne modificano il proprio aspetto assai lentamente, dicono. Ma alcune volte tutto questo avviene invece con una velocità inaspettata. Da giovane, per raccontarne una, mi spostavo spesso in bicicletta sui colli boscosi vicini a casa mia. Frequentavo l'università ed avevo la patente, ma il bilancio delle mie ricchezze era alquanto limitante: un desolante buco nero nelle risorse finanziarie escludeva la possibilità di attingere con frequenza ai distributori di carburante, mentre ero messo molto meglio in materia di tempo a disposizione e soprattutto di gambe e fiato. Su una mappa Tabacco mi ero imbattuto nello strano simbolo che rimandava al significato di arco in roccia naturale nei pressi del Castello di Zumelle, tanto che decisi di fare un salto a scoprire di che si trattava.
Le foreste che crescevano nella parte alta del territorio di Mel erano molto diverse da oggi: dominavano le piante ad alto fusto (soprattutto dei grandi faggi) ed il sottobosco era curato e spazioso, per nulla ingombrato da cespugli come si presenta invece ai giorni nostri; i segnali escursionistici erano pressoché inesistenti anche allora, ma almeno tracce e sentieri erano evidenti e praticati. Lasciata al sicuro la mountain-bike, dopo una breve e ripida salita a piedi me lo trovai improvvisamente davanti nel posto più inatteso: il Volt de Val d'Arch si presentava come una massiccia e ardita formazione rocciosa scavata dall'acqua in tempi geologici remoti, un ponte di pietra dislocato tuttavia sulle pendici boschive di un colle prealpino che con l'acqua sembra avere ben poco a che fare. Ammirai e fotografai. Poi gli anni passarono.
Ritornai in diverse occasioni da quelle parti, dapprima con mio padre ed in seguito con altre compagnie di amici camminatori. Nel frattempo avevo scoperto tramite la recente invenzione di internet che Il Volt rappresenta anche la testimonianza storica di antiche contese, prolungatesi dall'epoca d'oro della Repubblica Veneta fin quasi all'Unità italiana, per il possesso amministrativo e il diritto di sfruttamento di queste vallate tramite le attività pastorali: un'iscrizione nella pietra, scolpita nel 1838 per celebrare la fine di quella vertenza secolare, è ancora oggi leggibile con un po' di fatica su entrambi i lati dell'arco. Poiché era impossibile spostarlo, il Volt doveva apparire ai politici dell'epoca come il miglior guardiano di confine che si potesse immaginare.
Il Volt de Val d'Arch
Risale alla primavera del 2018 l'ultima visita, quando per conto di una comitiva di amici escursionisti mi venne chiesto di organizzare all'ultimo minuto una camminata sulle nostre Prealpi. Non avevo il tempo e non ritenevo nemmeno necessario andare a provare il percorso, ma mi sbagliavo di grosso: in non molti anni il bosco che circonda il Volt era del tutto cambiato, l'orientamento era difficoltoso a causa della vegetazione selvatica cresciuta in modo disordinato, e tutti gli accessi risultavano quasi invisibili. Per mia fortuna, qua e là una traccia quasi del tutto soffocata dai cespugli rivelava ogni volta all'ultimo momento la direzione da seguire ed il mio spirito guida (credo si chiami Beato Tex Willer o Santa Aquila della Notte) non mi fece mai mancare il suo sostegno.
Di posti così, dalle nostre parti ce ne sono un sacco. Ma col trascorrere dei decenni, temo, sarà sempre più difficile arrivarci.

Partenza a piedi dal parcheggio del rifugio Boz sopra la frazione di Tiago in comune di Mel, oggi confluito per referendum popolare nel più esteso comune di Borgo Valbelluna. Dapprima discesa su strada bianca verso la Val d'Arch per un paio di chilometri, poi salita a tratti anche molto ripida passando per il Volt e fino alla strada bianca che percorre la cresta della dorsale prealpina. Pausa pranzo alla vicina malga Canidi e successivo rientro per sentiero nel bosco fino al rifugio Boz. 600 metri di dislivello, per 13 km e 4 h di percorrenza effettiva. Meteo caldo e soleggiato.

domenica 3 febbraio 2019

PESSIMI ELEMENTI

Le Marmarole, dal monte Trànego.
Domenica 20 Gennaio 2019: DOLOMITI DEL CENTRO CADORE, salita al rifugio Antelào (m 1800 ca.).

Ci sono occasioni in cui perfino luoghi non comuni devono cedere il passo di fronte all'evidenza dei pur scontati ed antipatici luoghi comuni. Non ci sono più le stagioni di una volta? E va ben, lo hanno capito ormai tutti con l'eccezione più unica che rara dell'amministrazione Trump, presso la quale in ogni caso gioca un ruolo non secondario il calcolo politico ed elettorale a breve termine. Ma torniamo a casa nostra e ai nostri cari, inflazionati luoghi comuni: molto più che altrove, la montagna è infatti ormai un luogo non comune dove le conseguenze dei luoghi comuni sono più evidenti.
Consideriamo per esempio una situazione pratica al limite della banalità, come la preparazione del bagaglio per un'escursione in quota di difficoltà medio / bassa: nel bel tempo che fu, l'assetto dello zaino sarebbe stato drasticamente diverso in ambito invernale oppure estivo, nonostante qualche necessaria precauzione dettata dalla possibilità dei repentini cambi meteorologici più probabili nella stagione calda.
Al giorno d'oggi, soprattutto per un non sciatore come il sottoscritto, la faccenda è alquanto cambiata: pur essendo necessario viaggiare con abbigliamento pesante di scorta nello zaino, occorre anche prevedere un vestiario a cipolla in caso di presenza del famigerato vento favonio (detto anche phoen o vento di caduta) che sempre più spesso scalda gli animi e mette a dura prova anche la tenuta delle vegetazione più resistente; le ciàspe restano una necessità soprattutto per i versanti in ombra dove il vento accumula la poca neve disponibile, ma in alcuni tratti di sentiero scoperto diventano inutili ed è meglio caricarle in spalla; un paio di ramponi rappresenta un'utile risorsa in caso di neve dura o brevi tratti di ghiaccio vetrato, ma diventa un intralcio quando l'innevamento è talmente scarso e discontinuo da far affiorare ciottoli e fondo roccioso in grado di compromettere il filo delle punte d'acciaio ed il senso dell'equilibrio del povero camminatore.
Certo, si tratta di esempi dozzinali. Ciò che mi preme sottolineare, in linea più generale, è che simili esilaranti situazioni dove l'escursionista diventa quasi la vittima del proprio equipaggiamento presentano una doppia chiave di lettura. Da un punto di vista ottimistico, i mutamenti climatici offrono al camminatore l'opportunità di allenare i muscoli delle spalle, trasportando sulla schiena per pura precauzione un sacco di materiale che non utilizzerà. Da una prospettiva più cinica e disincantata, gli elementi meteorologici scombinati di questi tempi - pessimi elementi a tutti gli effetti - ci insegnano invece la loro natura repentina ed imprevedibile: dove una settimana prima la neve si misurava secondo la scala dei millimetri, oggi si spala a colpi di mezzo metro al giorno. Una conferma di più che i luoghi comuni, oltre ad essere scontati e banali, possono anche dar luogo a non comuni rotture di palle.

Partenza a piedi dalla frazione di Pozzale nei pressi di Pieve di Cadore e successiva salita, lungo un giro in senso antiorario, alla volta di forcella Antracìsa passando per ciò che un tempo era il rifugio Prapiccolo. Sosta per il pranzo al rifugio Antelào (aperto) e ritorno a valle lungo la strada bianca del monte Trànego. Circa 900 metri di dislivello, per 16 km e 5 h di percorrenza effettiva. Meteo fresco e limpido, nonostante qualche nuvola innocua che a tratti mascherava il sole.