venerdì 13 dicembre 2019

UNA FUSIONE ANNUNCIATA

Una ricerca del CNR certifica a suon di dati e recenti misurazioni che anche il ghiacciaio della Marmolada, entro pochi decenni, cesserà di esistere. «In soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%», si scrive nell'articolo della rivista Le Scienze linkato qui sotto. La parte peggiore della faccenda non viene raccontata in modo esplicito, ma in pratica suonerebbe più o meno così: nulla si può ormai fare per evitarlo. La catena di cause ed eventi è all'opera da un sacco di tempo, ed i tempi lunghi dei cambiamenti climatici fanno sì che, anche se per assurdo si potesse invertire il processo degenerativo nel giro di un giorno, la tragedia andrebbe comunque avanti fino alla sua inevitabile conclusione.


Per quanti frequentano le montagne sopra una certa quota e ritornano nei medesimi luoghi a distanza di anni e decenni, si tratta di un segreto di Pulcinella. Altre cime Dolomitiche paragonabili alla Marmolada ospitano piccoli ghiacciai meno evidenti che stanno seguendo la stessa sorte: Antelao, Pelmo e Civetta rappresentano solo alcuni fra gli esempi più rilevanti. Il caso per me più impressionante rimane quello della Fradusta sull'altopiano delle Pale di San Martino, raggiungibile anche per un escursionista di medio / bassa portata come il sottoscritto e di cui pubblico due malinconici scatti risalenti all'estate 2015: in entrambe le immagini ben si comprende come la massa glaciale, che un tempo avvolgeva completamente l'omonima e soprastante Cima della Fradusta, sia ormai sulla buona strada per ridursi ad una sorta di pozzanghera. Residui di ghiaccio "sporco" potranno forse attardarsi qualche tempo sotto i ghiaioni che fungono da isolante, ma la loro sorte è comunque segnata.
Non si tratta di spirito nostalgico o questioni estetico - paesaggistiche. I ghiacciai alpini di cui certifichiamo il requiem rappresentano la nostra principale fonte di acqua potabile. In un futuro non troppo lontano l'acqua da bere che ci arriva direttamente in casa diventerà un bene scarso, disponibile solo in alcuni periodi dell'anno e di sicuro molto, molto caro. Per grande gioia e profitto delle multinazionali dell'acqua in bottiglia.

venerdì 27 settembre 2019

LA SERA CHE CHIAMAI FRANCO

Giugno 2010, sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa Pareti del Cielo, senza timore di smentite uno dei libri più contestati nella storia dell'alpinismo italiano. Limitandomi a quanti non hanno ricorso alla querela, i commentatori più moderati hanno scritto soltanto che era un «libro inutile» e lo hanno paragonato alla barzelletta dell'automobilista impazzito che corre contromano sull'autostrada. La prefazione del libro era mia, e la ripropongo stasera a quasi dieci anni di distanza come testimonianza di rinnovata amicizia verso l'autore e protagonista. In direzione ostinata e contraria è sempre stata un'espressione che ben si adatta all'esperienza di vita del grande Franco Miotto.

La Primula Rossa della Schiara era ed è tuttora famosa per il suo carattere talvolta schivo ed allergico al chiasso della folla, senza ombra di dubbio sincero ma anche brusco e sanguigno. Non è persona da mezze misure o gradazioni di grigio: con lui è possibile soltanto un’intesa istintiva oppure, nel peggiore dei casi, una contrapposizione radicale e profonda. Oggi mi sembra incredibile a ripensarci, ma la prima volta che sollevai la cornetta del telefono per disturbarlo nella sua quiete domestica mi ritrovai veramente a meno di un passo dalla seconda delle eventualità di cui sopra.
Correva l'anno 2002 e la scrittrice Luisa Mandrino aveva appena dato alle stampe il fortunato libro La forza della natura, un’appassionata biografia di Franco che sarebbe stata presentata entro pochi giorni in anteprima al festival bellunese Oltre le Vette. Ritenevo utile scambiare due parole con il Nostro in vista di un possibile articolo di presentazione su un quotidiano locale, ma fui costretto a fare i conti con la ruvida reazione di Franco. Appena intuito che il mio mestiere era quello del collaboratore giornalistico si trattenne a stento dal mandarmi a Quel Paese per la via più breve, ma fu così bravo da riuscire a salvare la forma mantenendo intatta la sostanza del discorso: «No, guardi, lasciamo perdere. Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare, e non mi sembra il caso di farlo in pochi minuti qui al telefono».
Fu la prima e l'ultima volta, ancora oggigiorno me ne stupisco, che ci rivolgemmo l'uno all'altro dandoci del Lei. L'articolo uscì in stampa, Franco lo lesse e con ogni probabilità non lo ritenne scritto male. Mi recai a salutarlo alla presentazione del volume ed un paio di settimane più tardi mi chiamò improvvisamente al telefono cellulare mentre mi trovavo ancora fuori casa: «Sono Franco Miotto, mi farebbe piacere ospitarti a casa mia per un bicchiere di vino, uno di questi giorni».
Fu la fine. Oppure, se vogliamo, un grande ed entusiasmante inizio: una quantità strabiliante di bottiglie di vino, e mi riferisco in particolare al forte Tocai friulano che fa la parte del leone nella sua cantina, sono state prosciugate da quel giorno di otto anni fa. Tuttavia ancora oggi Franco, nelle frequenti occasioni in cui si abbandona alla marea dei ricordi, spesso non trascura di cospargersi il capo di cenere: «Quella volta al telefono non sono stato proprio il massimo della cortesia, mi dispiace un sacco».
Siamo compaesani da diversi anni, ma fino ad un certo punto della mia vita il nome di Franco Miotto ha rappresentato “soltanto” un nome inciso sulla pietra nel pantheon dell’alpinismo italiano, un riferimento sfuggente che spesso ricorreva in materia di montagna bellunese quando si voleva indicare qualcosa di irripetibile o comunque non facilmente imitabile da parte dei comuni arrampicatori ed escursionisti domenicali. In seguito, ribadisco, gli avvenimenti hanno preso una strana piega. Normalmente la conoscenza diretta riduce le distanze tra le persone, e le induce col passar del tempo a valutazioni reciproche basate su fatti oggettivi. Anche frequentando Franco è andata in parte in questo modo, ma soltanto fino ad un certo punto: l’Uomo dei Viàz anche dopo molti anni possiede infatti l’indubbia abilità di stupire quanti gli stanno intorno.
Franco è capace di impiegare giorni interi per studiare un dilemma che gli sta a cuore, analizzarlo da ogni prospettiva possibile, escogitare una soluzione semplice e complessa nello stesso tempo (magari l’uovo di colombo, al quale in precedenza nessuno aveva mai pensato) ed infine applicarla in modo perfino elegante da un punto di visto estetico. Non mi riferisco beninteso soltanto a problemi di carattere alpinistico, bensì anche a faccende che riguardano la vita quotidiana: la cura delle api e degli alveari; l’intarsio in legno del volto di Ernesto “Che” Guevara con il bianco riflesso dell’occhio che nel corso della lavorazione lo ha fatto impegnare con particolare puntiglio; il rimedio al flagello delle talpe, che ogni anno con la bella stagione tentano di devastargli il tappeto erboso del giardino a cui tiene moltissimo.
In questo volume pubblicato da Nuovi Sentieri ho cercato di intervenire con i piedi leggeri, sforzandomi al massimo per fare emergere dall’intreccio della storia soprattutto Franco con la sua grinta generosa ed imprevedibile. Sono grato all’editore Bepi Pellegrinon per averci permesso con pazienza di portare a termine questo progetto, ma ringrazio soprattutto lo stesso Franco Miotto, che a un dilettante sprovveduto della montagna come il sottoscritto ha rivelato il fascino pauroso e selvaggio delle Dolomiti Bellunesi. Rivolgo infine un doveroso omaggio al ricordo di Benito Saviane, scomparso nel febbraio 2010 dopo una breve ma dolorosa malattia.

giovedì 11 luglio 2019

IL DILEMMA DEL RICCIO

Le alte temperature imperversano, e credo pochi di voi abbiano un'idea anche approssimativa di quanto sforzo comporti alzare una penna per mettersi a scrivere. Si avvicinano anche le ferie, e nelle prossime settimane il blog continuerà ad essere aggiornato con qualche contenuto d'archivio che non mi farà di certo imperlare la fronte di sudore. Quello, come sempre, lo riservo di buongrado ai sentieri. La via prosegue senza fine.
Si comincia con questa intervista d'annata a Luca Visentini e Mario Crespan, rilasciata all'inizio del mese di agosto del 2003 durante la premiazione del Pelmo d'Oro a loro assegnato nella sezione della cultura alpina, e pubblicata sul Corriere delle Alpi di Belluno nei giorni successivi. I contenuti mi sembrano ancora piuttosto attuali. Oltre a provare un po' di nostalgia per quei giorni, mi viene spontaneo il seguente sottotitolo: "quando il passato era ancora futuro". Un caro saluto a Luca e un commosso ricordo per Mario, scomparso ormai da qualche anno.
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BELLUNO. Un approccio alla montagna ed all'alpinismo che sia il più possibile rispettoso e "pulito", non inteso come semplice nostalgia del tempo passato bensì aperto all'esigenza di preservare l'integrità dell'ambiente montano e la fisionomia originale dei profili delle vette. A margine della recentissima consegna del premio Pelmo d'Oro, che ha visto la loro affermazione nella sezione dedicata alla cultura, Luca Visentini e Mario Crespan delineano i tratti fondamentali del pensiero che da diversi anni a questa parte ne orienta i passi nella loro opera di divulgazione editoriale, letteraria ed artistica della montagna veneta. «È importante che chi frequenta la montagna per scopi escursionistici, alpinistici o semplicemente turistici lo faccia in modo leale,» esordisce Luca Visentini, «semplicemente perché non vogliamo che le montagne vengano rovinate o sconvolte nella loro morfologia». Editore e scrittore di montagna con all'attivo numerose guide alpinistiche il primo, disegnatore e grafico professionista il secondo, Visentini e Crespan hanno avviato da alcuni anni a questa parte una proficua collaborazione che ha dato luogo a pregevoli pubblicazioni dedicate a diversi gruppi montuosi dell'area dolomitica.
Prendendo spunto dalla motivazione della giuria del Pelmo d'Oro, che si è soffermata sulla vostra attività di invito alla montagna, quale significato sottintende al giorno d'oggi parlare di cultura di montagna? «Pubblicando testi di altri autori, oppure scrivendo in prima persona, amo privilegiare un determinato modo di intendere l'alpinismo», spiega Luca Visentini: «Un modo di procedere "pulito" a mio parere è indispensabile per una corretta cultura della montagna. Dico questo perché sempre di più va invece diffondendosi un utilizzo "sporco" dell'ambiente alpino fatto di spit, vie ferrate, funivie ed altri mezzi artificiali. In particolare gli spit, oltre ad essere inquinanti, possono essere definiti come un trucco utilizzato dalla maggioranza per elevare a dismisura le difficoltà, allontanandosi tuttavia sempre di più dalla dimensione dell'avventura che è una componente fondamentale dell'alpinismo. Ci troviamo in un periodo di "onda bassa" provocato dalla diffusione dell'artificiale, ed è dunque importante non perdere la memoria dei percorsi più tradizionali per un futuro in cui la gente avrà nuovamente bisogno di un approccio più naturale all'ambiente che la circonda».
Si tratta dunque di porre rimedio ai danni che la mentalità consumistica ha provocato anche in montagna? «Perfino lo stesso concetto di sicurezza concorre talvolta a sviare escursionisti ed alpinisti da un corretto rapporto con l'ambiente», prosegue Mario Crespan sulla stessa linea dell'amico e collega Visentini: «Al giorno d'oggi possiamo riscontrare addirittura una sovrabbondanza di mezzi di protezione che includono il telefonino, l'elicottero e tutta una serie di macchinari che possono arrivare sempre più in alto. Il risultato di questo atteggiamento consumistico trasportato in alta quota è che la gente non è più preparata fisicamente o mentalmente alla fatica, e sebbene si illuda di essere al sicuro poiché in possesso di un telefono cellulare, in pratica si rivela estremamente fragile. Un'altra conseguenza di tutto ciò è che la montagna finisce inevitabilmente per essere sempre meno frequentata, soprattutto nei luoghi più isolati dove occorre camminare molto per arrivare alla base delle pareti».
Sempre a proposito di abbandono della montagna, è proprio impossibile trovare una via di mezzo che permetta di evitare sia il saccheggio dell'ambiente, sia lo spopolamento dei borghi alpini e dei pascoli? «È certamente difficile trovare un punto di equilibrio», sottolinea ancora Visentini, «poiché oggi è di moda un turismo che assomiglia molto alla TV spazzatura. Bisogna tuttavia rendersi conto che molto della situazione attuale dipende dall'offerta. I turisti che frequentano la montagna sono in un certo senso obbligati a seguire certi modelli di comportamento perché non hanno alternative, perché l'offerta sul mercato è quella che è. Ma come si possono valutare i gusti dei consumatori in assenza di una opzione valida? Le mode tuttavia passano, e presto verrà il tempo in cui le persone avranno bisogno di un rapporto meno artificiale con l'habitat d'alta quota». «È sempre il vecchio problema dei ricci che devono passare l'inverno», aggiunge Crespan: «Troppo vicini rischiano di trafiggersi, eccessivamente lontani finiscono invece per morire di freddo. Occorre trovare un'asse di equilibrio che consenta di volta in volta di stabilire dove fermare lo sviluppo alberghiero, in quali luoghi permettere la costruzione di rifugi e bivacchi e dove addirittura rimuoverli perché eccessivamente concentrati. È importante preservare la wilderness e nello stesso tempo ammettere un turismo più rispettoso. Ma per far questo è indispensabile allontanarsi da un modello di società dei consumi che ci propone tutto confezionato ed a scatola chiusa: perfino luoghi di formazione come la scuola o istituzioni culturali come i musei sembrano attualmente adottare sempre di più questa mentalità. Ci avete mai fatto caso? Durante le visite a mostre e cattedrali non è più possibile deviare dal percorso prefissato».
Cosa ci raccontate infine dei vostri prossimi progetti editoriali? «Solo per rimanere nell'ambito delle Dolomiti, in qualità di autori stiamo curando le parti finali di una pubblicazione sulle Pale di San Martino che uscirà tra un anno circa», conclude Luca Visentini: «Come casa editrice daremo invece presto alle stampe una guida sulle Pale di San Lucano opera dell'alpinista Ettore De Biasio, un libro di scalate nel Parco delle Dolomiti Friulane, ed infine un testo su Schiara e Tamer scritto dal bellunese Giampaolo Sani».

venerdì 5 luglio 2019

E BIRRA SIA

Ho dato inizio qualche mese addietro ad un filone di articoli intitolato Arriviamo tardi prendendo spunto ancora una volta da un luogo comune: la montagna come sinonimo di provincialismo, sofferente cronica di arretratezza e chiusura congenita nei confronti delle novità, roccaforte del bel tempo che fu con tutte le conseguenze positive e negative che questo ruolo comporta. Molte volte non si può negare una certa dose di attendibilità a questo modo di dire in origine assai semplicistico. In altri casi mi piace invece pensare che noi montanari stiamo talmente indietro in termini di mode, tendenze ed innovazione, se vogliamo prendere ancora per buona la tradizione della dimensione circolare del tempo, che rischiamo addirittura di trovarci in anticipo sul giro successivo come un orologio rotto o un atleta con le ruote sgonfie. Forse l'argomento che tratto di seguito, pur nella sua evidente leggerezza favorita dalla temperatura sopra le righe, rientra a buon titolo in questo paradigma come chiaro esempio di persistenza del passato nel tempo presente. E come ripetono i miei amici di Cavaso del Tomba, nur ein Schwein trinkt allein...

Esplode l'estate in tutto il suo potenziale termico e l'escursionista, tanto alla basse quanto alle alte quote, inevitabilmente entra in stato di sofferenza. Mi sembra dunque doveroso spendere un po' di tempo ed impegno sull'argomento birra, che senza tema di smentite può essere riconosciuta come la bevanda preferita dai camminatori di ogni età. Birra e montagna vanno a braccetto non soltanto perché chi frequenta le terre alta mostra di apprezzarla assai, ma soprattutto in quanto la birra è per ragioni storiche un prodotto delle vallate alpine, quasi sempre in abbinamento ad ingredienti, tecniche ed attrezzature fortemente legate ai luoghi d'origine. Dolomiti bellunesi e Pedemontana veneta rappresentano un caso esemplare di questa vera e propria simbiosi, tanto che i nostri territori hanno anche dato i natali nel corso degli anni a diverse associazioni impegnate a divulgare cultura e pratica della birrificazione casalinga. Se non è infatti accertato dal punto di vista scientifico che chi beve birra campa cent'anni, fuori da ogni ragionevole dubbio appare invece ormai la tesi che vorrebbe il produttore di birra per autoconsumo risentire così bene della natura genuina della propria creatura da arrivare in scioltezza fino al traguardo dei centoventi anni senza nemmeno un acciacco.
Scherzi a parte, avrebbe forse potuto uno come il sottoscritto prendere sotto gamba una simile sfida? No di sicuro: com'è universalmente noto, oltre ad apprezzare il prodotto finito possiedo un'innata curiosità nei confronti di ciò che al giorno d'oggi viene definito know how. Oltre al Cosa, per dirla con parole povere sono attirato anche dal Come. Certo non si è trattato di un'avventura facile: le primissime brodaglie zuccherose ed insipide, con la consistenza della polenta molle, non rappresentavano proprio un esordio incoraggiante: servì diverso tempo per prendere la dovuta confidenza con fermentatori, lieviti, procedure di sterilizzazione ed altre diavolerie.
Soltanto con molte prove ed errori imparai un trucco che si rivelò determinante per non essere travolto da quantità spropositate di pentoloni sporchi ed appiccicosi dai residui di malto: approfittare dei numerosi tempi morti per portarsi avanti col lavaggio dell'attrezzatura, prima e dopo l'uso. Altre soddisfazioni vennero in seguito: il primo fermentatore da cinquanta litri, le potenzialità offerte dal lievito liquido, la magia della macinatura del malto alla vigilia della cotta, l'efficacia insostituibile di una serpentina in rame per raffreddare nel più breve tempo possibile la pozione luppolata al termine della bollitura. Il momento culminante della mia breve carriera di birraio dilettante fu senza dubbio la scoperta di quella che per qualche anno ritenni la mia ricetta preferita: una bitter di colore rosso intenso in stile britannico, dolceamara al punto giusto e con una schiuma da favola: ho finito le ultime bottiglie del prezioso reperto un sacco di anni addietro, ed ancora oggi le rimpiango.
Inutile ad ogni modo soffermarsi sulle glorie passate: i momenti di crisi e gli incidenti di percorso sono molto più interessanti e perfino divertenti da raccontare. Venne per esempio la volta in cui mi cimentai con la produzione di quaranta litri di bière blanche, ma al momento dell'apertura del fermentatore distolsi lo sguardo inorridito: dal contenuto emanava una puzza inconfondibile e nauseabonda di uova marce, che mi spinse naturalmente a pensare al peggio: era forse all'opera una temibile infezione batterica che aveva compromesso la cotta? Già mi preparavo spiritualmente a gettare tutto nel lavandino, quando un amico più esperto mi raccomandò pazienza: potevo comunque provare ad imbottigliare, sperando per il meglio. Alla fine aveva proprio ragione lui: dopo la maturazione in bottiglia il tanfo era scomparso, riassorbito da qualche strano processo chimico - biologico. Sono situazioni in cui è meglio non porsi troppe domande: la birra venne regolarmente consumata senza alcun effetto collaterale, ed io sono tuttora in vita per raccontarlo.
Anche la fermentazione del mosto può comportare alcuni inconvenienti, soprattutto quando nei primissimi giorni della cotta la fase tumultuosa si trasfigura per diventare furibonda nel senso più proprio del termine. Incontrai questo problema durante una delle prime cotte di birra stout: la ricetta era particolarmente calorica, il lievito liquido partito con la rincorsa, il fermentatore aveva forse dimensioni troppo ridotte in proporzione alla quantità di liquido, tanto che la schiuma sotto pressione cominciò a fuoriuscire in modo costante ed ostinato dal piccolo sifone chiamato in gergo tecnico gorgogliatore, mentre io passai i successivi tre giorni  a ripulire con la spugna quella densa schifezza dalle piastrelle del bagno.
Negli anni successivi l'entropia lavorativa ebbe la meglio, tanto che da autonominato mastro birraio a chilometri zero diventai in breve tempo semplice appassionato di birra ad ettolitri zero. Finito il tempo del Come, mi restò il Cosa e ad ogni modo feci di necessità virtù.

giovedì 27 giugno 2019

IL RAGNO DELLE DOLOMITI

Ho conosciuto Cesare Maestri a Feltre nel mese di marzo del 2006, durante una conferenza organizzata nei locali della sede universitaria dello IULM, e già allora avevo letto quasi tutti i suoi libri. Collaboravo da qualche tempo col Corriere delle Alpi di Belluno, al quale consegnai in seguito questo articolo per documentare l'incontro pubblico.
L'alpinista di Campiglio mi ha sempre ispirato una certa dose di simpatia per i suoi trascorsi avventurosi ed il suo modo scanzonato, a tratti addirittura irriverente, di affrontare la montagna, il rischio e le avversità della vita. Certo, la mia idea personale di approccio con l'ambiente naturale è diametralmente opposta alla sua, ed al giorno d'oggi certe sue esperienze ed atteggiamenti protagonistici assunti in gioventù risulterebbero di certo fuori posto.
Ma si tratta appunto di peccati di gioventù, se proprio peccati vogliamo definirli: in più di una occasione (anche durante la conferenza descritta nell'articolo) Cesare stesso ha infatti espresso una parziale autocritica riguardo agli episodi maggiormente sopra le righe, e dunque la mia stima nei suoi confronti rimane immutata.
Trascuro in via del tutto intenzionale di soffermarmi o di esprimere giudizi sulle sue esperienze alpinistiche in terra patagonica poiché non possiedo le informazioni, né i titoli per sottoscrivere qualunque posizione su questo argomento.

FELTRE. Cesare Maestri non dà proprio l'impressione di essere una persona che si accontenta o persegue la comodità come massimo valore della vita. Per rendersene conto basta analizzare la sua esperienza personale di alpinista. Proviene da una famiglia di attori, suo fratello era un doppiatore cinematografico di talento ed anche per il giovane Cesare, che nel primo dopoguerra non era ancora il Ragno delle Dolomiti, l'avvenire sembrava prospettare inizialmente una carriera nel mondo dello spettacolo. «Ho scelto un palcoscenico diverso per la mia vita», confessa tuttavia l'anziano scalatore trentino tornando con la memoria alle scelte di vita intraprese sessant'anni addietro: «Nelle poche pellicole di montagna che ho girato, l'unico ruolo che riuscivo ad interpretare bene era quello di me stesso. Non si trattava decisamente di un mestiere adatto al sottoscritto. Non ho mai risolto fino in fondo il dilemma se gli attori abbiano così tanta personalità da poter assumere nello stesso tempo ruoli diversi, oppure al contrario se non posseggano una identità propria».
Non ha mezze misure l'anziano alpinista di Madonna di Campiglio, intervenuto nel pomeriggio di giovedì scorso allo IULM di Feltre come ospite del ciclo di incontri Testimoni di valori umani e sociali. Proprio il tema principale della conferenza della quale è stato relatore, il coraggio, mette in luce Cesare Maestri come una personalità che predilige le scelte nette: «La sindrome dell'eroe è sempre stata nel bene e nel male una mia caratteristica fin dagli anni della gioventù, è questo il modo in cui non posso fare a meno di vedere me stesso, sono un esibizionista inguaribile. Col passare degli anni questo atteggiamento si è certamente trasformato: da giovani si crede di poter cambiare il mondo, mentre in seguito si scopre che è sempre l'ambiente esterno a condizionarci e ad avere l'ultima parola».
Non dobbiamo tuttavia commettere l'errore di credere che stiamo parlando di una virtù concessa per grazia ricevuta solo a poche persone. «Coraggio e paura stanno sempre fianco a fianco dentro ognuno di noi,» spiega Maestri davanti alla platea di studenti universitari e appassionati della montagna, «proprio la paura insita in ogni essere umano è il vero termometro per misurare quanto riusciamo ad essere positivi anche nei momenti difficili». Ed è alla luce di queste considerazioni che il primo, celebrato salitore del Cerro Torre rievoca alcuni degli episodi della sua esistenza da lui ritenuti più formativi: i duri anni della guerra, quando per pochi amanti del rischio era possibile sbarcare il lunario anche ricorrendo a piccoli furti e sabotaggi nelle caserme nazifasciste; le temerarie scalate degli esordi sulle cime di Brenta e la decisione di cominciare ad andare in montagna rigorosamente da solo; l'ultima grande avventura extraeuropea vissuta solo quattro anni addietro, durante il tentativo di salita sugli 8000 metri dello Shisha Pangma sul tetto del mondo.
«Quando praticavo l'alpinismo da dilettante, un'attività scoperta per caso e che è diventata col tempo la mia occupazione quasi a tempo pieno, confesso di essere stato in verità anche un po' incosciente», racconta ancora Maestri. «Vedendomi scalare in solitaria, molte volte anche in discesa e senza ricorrere alle corde doppie, erano in molti gli esperti di montagna che profetizzavano il mio imminente decesso per eccessivo disprezzo del rischio. Se sono sopravvissuto, e sono ancora qui oggi a raccontarlo, lo devo agli allenamenti quotidiani, alla padronanza della tecnica e al rispetto verso la roccia». A titolo di spiegazione, Cesare sottolinea tuttavia anche la difficile situazione economica caratteristica degli anni del secondo dopoguerra: «Non mi vergogno di raccontare che una volta ho perfino accettato un assegno dal direttore di un giornale come compenso per andare a percorrere una via. Oggi questo modo di fare potrebbe sembrare inopportuno, ma in quel tempo era anche così che mi guadagnavo da vivere. Mi sentivo un artista, e nel ruolo creativo che è proprio degli artisti mi sentivo autorizzato a vendere il mio prodotto, come se si fosse trattato di un quadro o una scultura».
Prima dei saluti finali, molti tra gli spettatori propongono interrogativi sollecitando il giudizio tecnico del relatore. Esiste un'età giusta per smettere di arrampicare?, chiede qualcuno tra il pubblico: «Io ho lasciato l'alpinismo di punta abbastanza presto,» è la risposta di Maestri, «ma non per questo ho rinunciato ad andare in montagna o a mettermi in discussione con nuove sfide. Non esiste un'età per tirare i remi in barca, bensì piuttosto un momento per cominciare a rivedere i propri obiettivi ed accontentarsi di ciò che sta alla nostra portata».

venerdì 21 giugno 2019

INGORGHI DI STAGIONE

Giunge infine il solstizio del 21 giugno, e nella serata più lunga dell'anno tutto sembra suggerire l'imminenza di un'estate assai torrida (magari mi sbaglierò, ma le previsioni meteorologiche a breve termine puntano tutte in questa direzione). Alle basse quote con ogni probabilità sarà senz'altro così, ma da tempi immemorabili chi abita le Terre Alte è abituato al fatto che non esiste nulla di più sfuggente, sfumato, precario ed effimero rispetto a quanto per convenzione ed abitudine nominiamo la bella stagione. Le diverse epoche dell'anno vanno, vengono, si incrociano, si sovrappongono: uno crede per esempio di trovarsi in piena estate, quand'ecco che una spietata perturbazione anomala lo riporta a pieno titolo fra le braccia del Generale Inverno in men che non si dica.
A puro titolo di esempio pubblico questa sera alcune immagini scattate giusto dieci anni addietro nelle vicinanze del Passo Pordoi, e più precisamente lungo il tracciato del sentiero Viel Dal Pan: l'uscita in questione aveva avuto luogo insieme ad alcuni amici alla fine del mese di luglio e dunque con le fioriture d'alta quota ormai in fase avanzata, ma la neve aveva deciso ugualmente di metterci lo zampino. Per la cronaca, il giorno seguente sul vicino Piz Boè neve e ghiaccio vetrato si comportavano da padroni incontrastati.
Per fare fronte a questa e ad altre situazioni incresciose, lo zaino dell'escursionista anche di media montagna, come del resto allo scrivente piace immaginarsi, dovrebbe di preferenza contenere una dotazione essenziale di equipaggiamento quattro stagioni, come del resto già avviene con la pizza e la sacra automobile. A tale proposito ho osservato in più occasioni come il mio bagaglio domenicale non presenti in effetti molte differenze fra estate ed inverno: buona parte dell'abbigliamento del camminatore, nonostante la concreta possibilità di restare inutilizzato, deve ugualmente rimanere di scorta nello zaino da trentacinque litri per ogni evenienza. Chissà... magari sono sulla buona strada!

giovedì 6 giugno 2019

LE AVVENTURE DEL MORETTO

Non mi piace scrivere sempre di me stesso, e ripropongo dopo qualche anno questa recensione già pubblicata nel 2006 nel mio precedente blog su piattaforma Splinder. Si tratta di una biografia che ho letto per la prima volta nell'anno del mio servizio civile alla fine dei Novanta, e che in qualche modo ha segnato il mio immaginario giovanile. Vivesse ai giorni nostri, il protagonista di questa storia verrebbe annoverato fra i cosiddetti cattivi: bombarolo, terrorista, mercenario, addirittura persecutore dei Nativi Americani. Questi sono gli appellativi che forse gli verrebbero assegnati. Ma era un'altra epoca, e non bisogna commettere l'errore di giudicare la storia col modo di pensare di oggi: il Moretto, com'era conosciuto Carlo di Rudio nell'infanzia bellunese, fu di certo anche trascinato dalle circostanze ed è il testimone di un tempo nel quale viaggiare fino all'altro capo del mondo era un'impresa ed un'avventura per pochi. Qualcuno partiva con destinazione incerta, pochi sopravvivevano e quasi nessuno tornava. Egli stesso non fece eccezione.

Il 25 giugno 1876, sono passati oltre 140 anni, si combatteva sulle praterie nordamericane la battaglia del Little Bighorn in cui perse la vita il colonnello George Armstrong Custer. La storia è stata rievocata, spesso con una buona dose di fantasia aggiunta, in un numero imprecisato di pellicole cinematografiche: se tra i lettori del blog si annida qualche appassionato di fumetti Bonelli come Tex o Magico Vento non ci sarà certo bisogno di raccontare ancora un volta cosa avvenne in quel combattimento tra Pellerossa e Giacche Blu. Mi piace tuttavia ricordare questo episodio storico perché ad esso prese parte anche un mio compaesano.
E non mi riferisco al già famoso Giovanni Martini, che era Campano di origine e fu il trombettiere di giornata di Custer portatore della richiesta di aiuto indirizzata al Maggiore Frederick Benteen: sul campo di battaglia quel giorno, oltre a numerosi altri italiani, c'era infatti anche il bellunese Carlo Camillo di Rudio, nato ai piedi del monte Serva nel 1832 e morto a Pasadena il 1 novembre 1910. A titolo di documentazione, per quanto desiderassero approfondire questa affascinante narrazione, segnalo il libro Dal Piave al Little Bighorn, scritto nel 1996 da Cesare Marino e dato alle stampe a Belluno da Alessandro Tarantola Editore.
Impiegherò solo poche righe per raccontare in breve cosa combinò in giro per il mondo questo irrequieto personaggio. Carlo era figlio del conte Ercole Rudio ed apparteneva alla nobiltà spiantata della cittadina dolomitica. Dopo un esordio di carriera come cadetto austriaco, venne coinvolto nei moti del Risorgimento italiano: prese parte ai combattimenti di Venezia e della Repubblica Romana nel 1848, fu amico di Pietro Fortunato Calvi e Giuseppe Mazzini, conobbe Giuseppe Garibaldi. Nel 1858 partecipò all'attentato contro Napoleone III in complicità con Felice Orsini ma venne catturato e deportato nella colonia penale della Cajenna. Riuscì tuttavia ad evadere e a rientrare di nascosto in Europa dopo pochi mesi di reclusione.
Ma nel vecchio continente la terra gli scottava ormai sotto i piedi, tanto che a trentun anni di età anni il Nostro sbarcò a New York dove proseguì la sua carriera militare arruolandosi nell'esercito degli Yankees e finendo a combattere nella Guerra di Secessione. Diventato Charles DeRudio, il nome che compare ancora oggi sulla sua tomba a San Francisco, il nobile bellunese venne aggregato al Settimo Cavalleggeri di Custer e passò ancora una volta indenne attraverso l'epico scontro tra Capelli Gialli, Sitting Bull e Crazy Horse. Incredibile a dirsi, morì tranquillamente di vecchiaia assistito dalla sua famiglia, sebbene in patria al giorno d'oggi quasi nessuno ricordi più il suo nome.

mercoledì 29 maggio 2019

A CASA DI HEIDI

In un articolo di qualche settimana addietro ho colpevolmente scordato una baggianata panoramica tra le peggiori di sempre: «In montagna si mangia sempre bene, e alla fine ci si lecca pure le dita». Nulla di più lontano dal vero, ovvio. Ricordo ai più distratti che la nozione di baggianata panoramica comprende affermazioni di apparente buonsenso basate il più delle volte soltanto sul sentito dire, dogmi fai - da - te che potrebbero anche corrispondere al vero in diverse situazioni concrete ma si dimostrano inaffidabili di fronte a sconcertanti casi particolari. Correva l'anno 2012, quando fui testimone diretto di un evento significativo in tal senso. Spiego in primo luogo l'antefatto.
Insieme ad una ridotta ma affiatata compagnia di camminatori mi trovavo sul suolo francese, e più in particolare nelle immediate vicinanze di Chamonix. Era il mese di agosto ed il nostro itinerario lungo ben nove giorni consisteva nel Grand Tour du Mont Blanc, il giro completo del massiccio del Monte Bianco da Courmayeur a Courmayeur attraverso Italia, Svizzera e Francia, oltre settemila metri di dislivello con diversi valichi alpini d'alta quota da superare. Forse è superfluo precisarlo, ma si tratta di uno dei più emozionanti e coinvolgenti itinerari escursionistici che al giorno d'oggi si possono intraprendere a livello europeo: oltre che per la simpatica comitiva di cui facevo parte, io lo ricordo in particolare per la vicinanza costante e grandiosa ai mirabili ghiacciai cui da buon Dolomitico non ero abituato. Certo, il riscaldamento globale si fa ormai sentire anche quassù e bisogna ammettere che le lingue di ghiaccio si sono conservate assai meglio sui versanti francese e svizzero che sono rivolti verso nord - ovest e godono dunque di un'esposizione più favorevole. Sul lato italiano, come risulta più evidente per esempio in Val Veny, si intuisce il passato splendore di questo gigante di roccia e ghiaccio ma oggi bisogna accontentarsi di larghe autostrade di ghiaia dove ogni traccia di permafrost è solo un lontano ricordo.
Questo l'itinerario seguito dal nostro gruppo, descritto per sommi capi. Lasciato Courmayeur e risalita per intero la Val Ferret, si passa in territorio svizzero e mediante un breve trasferimento in autocorriera si giunge a Champex sulle rive dell'omonimo lago. Sempre in terra elvetica, si prosegue di nuovo a piedi alla volta di Trient valicando la Fenètre de l'Arpette che noi abbiamo affrontato sotto un furioso temporale. Si arriva infine in Francia per il Col de Balme, dal quale si coglie con un unico sguardo la vallata di Chamonix che si attraversa integralmente sulla destra orografica, lungo il massiccio delle Aiguilles Rouges. Dopo le tappe intermedie del rifugio La Flegère e Col Brevent, nei pressi di Les Houches si scende dapprima sul fondovalle per attraversare in seguito il tracciato del trenino a cremagliera che si arrampica fino ai 2400 metri del Nido d'Aquila. Seguono la verde conca del Lac Jovet, la Ville des Glaciers circondata da pareti di cristallo, ed infine il rientro in Italia sul valico del Col de La Seigne. Un ultimo pernottamento al rifugio CAI Elisabetta Soldini, e già siamo di ritorno a Courmayeur.
Dopo un paio di tappe particolarmente impegnative sotto l'aspetto fisico (non scordiamo che si viaggiava con lo zainone da cinquanta litri in stile Alta Via), un bel giorno eravamo tutti cotti al punto giusto ed in vena di rilassarci con le gambe allungate sotto un tavolo. Il piccolo rifugio privato dove avremmo pernottato era sì leggermente spartano e con le comodità ridotte all'essenziale: ma cosa volete che sia, per una compagnia di escursionisti disidratati che avevano già alle spalle buona parte del perimetro del tetto d'Europa? Semplici dettagli, niente di più. Inoltre, sembrava proprio di stare a casa di Heidi: era una fiabesca serata estiva, il tramonto accendeva di rosso i ghiacciai sopra le nostre teste e l'unico rumore percepibile era un leggero vento che accarezzava l'erba sui pascoli circostanti. Cos'altro potevamo desiderare? Mangiare e bere a volontà, c'è forse bisogno di precisarlo?
E qui si presentò la prima, spiacevole sorpresa: il rifugio non possedeva una licenza per la vendita di alcolici, dunque avremmo trascorso la serata in meditazione salutistica come degli asceti, senza nemmeno la possibilità di reintegrare i sospirati sali minerali. La sorpresa numero due ci lasciò disorientati: in tavola per cena venne servito un deprimente vassoio pieno di pasta in bianco, varietà a grano tenero, rigorosamente scotta e senza condimento. Per pura cortesia, venne aggiunto su nostra richiesta qualche cubetto di burro del menu colazione in modo da far fronte al nostro evidente sgomento. Il colpo di grazia arrivò con la sorpresa numero tre: dessert a base di gelatina dolce tremolante, che puzzava di colorante chimico a distanza di cinque metri. Come avremmo potuto reagire, di fronte ad una simile Caporetto gastronomica? L'unica soluzione era fare buon viso a cattivo gioco: ci ritirammo in buon ordine verso le brande con grande fiducia nel futuro benevolo, traendo conforto insperato dalla somma ed ennesima baggianata panoramica trita e ritrita: «Soltanto nei rifugi italiani si mangia veramente bene!»

giovedì 23 maggio 2019

AELIA CAPITOLINA

Nonostante questo blog tratti in massima parte di piccole avventure personali e aneddoti vissuti grazie all'esperienza del cammino camminato, da diverso tempo cercavo l'occasione per scrivere qualcosa a proposito del mio viaggio in Israele avvenuto nel dicembre del 2017. Non si è trattato di un itinerario realizzato a piedi propriamente detto: un comodo autobus ci ha scarrozzati infatti dapprima in Galilea ed in seguito attraverso la catena montuosa centrale per giungere infine a Tel Aviv passando per Gerico e la Valle del Giordano, ma a conti fatti ricordo alcune discrete scarpinate effettuate nella parte più storica di Gerusalemme e nelle immediate vicinanze.
Ad ogni modo, per come lo vedo io il cammino non è altro che uno strumento di conoscenza, e nel caso di Israele mi sono comunque portato a casa diversi insegnamenti che considero importanti. Ne racconterò soltanto un paio, in modo da non essere troppo tedioso. Il valore della molteplicità culturale: è il primo concetto che mi è venuto in mente osservando lo spettacolo dei tetti di Gerusalemme vecchia dalla terrazza del convento cristiano - maronita che ci ospitava. Qualcosa di indimenticabile: forse in nessun altro luogo al mondo è presente un così grande numero di storie diverse concentrate in poco spazio, sebbene in nessun altro luogo del pianeta questa convivenza abbia richiesto un così pesante tributo di sangue.
Le radici di questa molteplicità sono di antica data: gli imperatori romani Vespasiano e Tito si procurarono un bottino leggendario grazie alle guerre giudaiche, grazie alle quali finanziarono insieme a tutto il resto anche la costruzione del Colosseo. Ma gli Ebrei non si considerarono sconfitti nemmeno dopo la distruzione del secondo tempio - quello di Erode, nel 70 d.C. - tanto che ancora durante il regno dell'imperatore Adriano quasi alla fine del secondo secolo vi furono rivolte ricorrenti che costrinsero i romani a schierare ben dodici legioni per fare piazza pulita di questi sudditi dell'impero così refrattari all'assimilazione forzata. Cominciava la diaspora, e alla città di Gerusalemme venne addirittura cambiato il nome in Aelia Capitolina affinché ogni traccia e memoria della cultura ebraica venisse cancellata.
Il valore della laicità: durante la successiva visita al monte del tempio ci accompagna Dan Bahat, celebre archeologo e docente universitario israeliano che ha esplorato a fondo le gallerie e i cunicoli sottostanti il monte Sion. Durante una conferenza tenutasi la sera precedente alla sede dei cristiano - maroniti, il professore ci ha già illustrato le ipotesi storicamente più attendibili riguardanti il destino dell'arca dell'alleanza, mentre oggi ci guida con competenza ed autorevolezza attraverso i check - point israeliani e palestinesi fino alla spianata delle moschee, sulla scalinata meridionale, nei cunicoli che conducono alla zona archeologica della Città di Davide e scendono infine verso le piscine di Siloe: Dan Bahat gode di una posizione privilegiata in virtù del suo ruolo di studioso, e nonostante sia israeliano viene rispettato anche dalla fazione palestinese.
L'unico "incidente" quasi buffo ha luogo proprio al check - point antistante l'ingresso alla spianata. Mentre infatti i militari dell'IDF si accertano che il nostro bagaglio non contenga armi da fuoco o altri oggetti pericolosi, la controparte palestinese procede ad un tipo di controllo del tutto diverso: i miliziani ispezionano infatti borse e zaini delle nostra comitiva per verificare che non contengano bibbie o vangeli (con me non corrono di certo questo rischio, ma loro non lo sanno) in grado nella loro mentalità di contaminare i loro luoghi sacri. Ricordo questo episodio singolare come uno dei momenti più significativi dell'intero viaggio in Israele. Anche da dettagli come questo si comprende l'esistenza di un importante spartiacque: da una parte uno Stato democratico moderno che si preoccupa della tua sicurezza, qualunque siano le tue opinioni; dall'altra parte una teocrazia la cui unica preoccupazione sembra essere la salvezza della tua anima, a scapito di tutto il resto.

martedì 7 maggio 2019

IN FONDO AL BUCO (SARDEGNA 4/4)

Da distratto che sono, mi sono reso conto da poco che non avevo mai riproposto la quarta ed ultima parte di questo racconto. I fatti narrati si riferiscono ad un trekking pasquale in Sardegna organizzato nel 2007 con alcuni amici escursionisti bellunesi. Si tratta senza ombra di dubbio di uno dei più emozionanti viaggi zaino e scarponi ai quali abbia preso parte, impegnativo a livello fisico e coinvolgente dal punto di vista emotivo. La pubblicazione originale ebbe luogo sul mio vecchio blog con piattaforma Splinder, mentre i tre capitoli precedenti sono tuttora disponibili più indietro, nella cronologia di questo stesso sito.

«Ragazzi, ditemi ciao». Mario agguantò la pesante grata disegnata per ostruire l'imboccatura della grotta, e in men che non si dica mise alcune solide sbarre tra noi e la luce del giorno. Un attimo prima si trovava cinque metri a piombo sopra di noi, fuori dall'angusto budello che ci separava dalla superficie, e adesso era semplicemente scomparso! Un grido stridulo di panico selvaggio scoppiò all'unisono nella componente femminile della comitiva, mentre nella testa dei maschietti si accese una spia di allarme: «Esiste una remota eventualità che non sia uno scherzo?»
Ci trovavamo ancora una volta nella vallata di Lanaitto sul fondo della spelonca di Su Bentu, uno dei quasi invisibili buchi così caratteristici sulle fiancate del Supramonte. Era l'ultimo giorno della nostra breve vacanza in Sardegna, ma in quel momento a qualcuno venne il terribile sospetto che forse non saremmo riusciti a prendere l'aereo per tornare a Venezia. Una calata in corda doppia di circa cinque metri ci aveva permesso di scendere nelle viscere della terra, ma adesso come ce la saremmo cavata? E soprattutto: come cavolo eravamo finiti lì sotto?
Eravamo arrivati a Oliena cinque giorni prima, e durante il nostro soggiorno pasquale nel Nuorese avevamo avuto modo di visitare gli ambienti naturali più diversi: le nevi del Gennargentu, le aride pietraie affilate del Supramonte e i profondi specchi d'acqua nel Gorropu. Dopo una giornata quasi balneare sulla spiaggia di Cala Luna, Mario dichiarò che non avremmo potuto concludere la nostra permanenza senza visitare una vera grotta sarda stracolma di stalattiti e magnifiche concrezioni. Le poche, timide voci contrarie vennero ignorate, e la frittata era fatta.
Ebbene sì, la commedia culminante di quel gran buontempone di Mario aveva avuto un ottimo successo. Il nostro timore latente dei luoghi bui e profondi, associato alla sinistra fama della Sardegna in fatto di sparizioni improvvise di persone, aveva fornito l'occasione per inscenare una rappresentazione teatrale di tutto rispetto. Un'avventura che, Mario ne era sicuro, non avremmo rinunciato a raccontare a mezzo mondo una volta tornati a casa. Cinque secondi dopo, non uno di più, Mario era infatti ricomparso esibendo un sorriso a trentadue denti: «Ci avevate creduto, non è vero?», esclamò reggendosi la pancia dalle risate.
L'allestimento della scampata tragedia era stato del resto accurato: partiti alle 03:30 del mattino dall'agriturismo come dei carbonari, avevamo in seguito atteso la prossimità dei primi chiarori dell'alba in una radura boscosa a Lanaitto, nella più completa oscurità se non fosse stato per un generoso falò improvvisato sul luogo in stile giovani esploratori utilizzando legname schiantato. Confortati da caffè e cornetti magicamente usciti dallo zaino del nostro accompagnatore, indossammo imbraghi e lampade a carburo circondati dagli strepiti degli uccelli notturni.
Infine partimmo, trattenendo quasi il respiro per rispettare la raccomandazione di Mario di non produrre baccano durante l'avvicinamento a Su Bentu: «C'è un pastore da queste parti», ci aveva avvisato, «non vorrei spaventarlo e indurlo a pensare che gli stiamo rubando il bestiame». Nel complesso, tutto ricordava quasi il set di un B - movie degli anni Settanta: fossero comparsi Grizzly, l'orso che uccide oppure una masnada di tagliagole armati di coltellaccio, la scena sarebbe stata perfetta.
L'ingresso verticale della caverna, che faceva appena intuire la sottostante vacuità color nero disperazione, sarà stata larga al massimo cinquanta centimetri. Quando atterrammo sul fondo, una volta abituati gli occhi alla pallida luce dell'acetilene, fummo colti da autentica meraviglia: davanti a noi si estendeva un labirinto di sale con abbondanza di composizioni carsiche: colonnati, drappeggi, ventagli di stucco multicolore, fiori di pietra e coralli di calcare, ardite architetture dalla staticità precaria che sembravano comunicare allo spettatore un solo perentorio messaggio: vietato toccare.
Una volta risaliti all'aria aperta, arrampicandoci alla meno peggio nello stretto cunicolo percorso all'andata, mi sembrò di aver passato nell'oscurità un tempo indefinibile: erano tuttavia soltanto le 10 di mattina, e la nostra "ora di libertà" era bell'e finita. Una volta tornati in agriturismo ci attendevano solo una doccia per ripulirci dal fango e l'ultimo pasto della nostra breve vacanza insieme a Mario e alla sua ospitale famiglia. Spazzolammo in fretta tutto il pecorino e il cannonau ancora reperibili, e già eravamo sulla strada del ritorno.
La serata dello stesso giorno ammiravamo il tramonto sul mare dai finestrini di un aereo, e dopo neanche un'ora di volo comparve sotto di noi la familiare mole del campanile di San Marco. Il mattino seguente, puntuale come d'abitudine, timbravo il cartellino in ufficio. Avviai il computer con gli occhi semichiusi, ma prima di calarmi nuovamente nella quotidianità del lavoro, trovai il tempo per un'ultima considerazione: ieri mattina stavo sul fondo di un antro oscuro della Barbagia, timoroso di non vedere mai più il bagliore del sole. Proprio buffa, la vita.

sabato 4 maggio 2019

DOLOMITI MERIDIONALI

Montagne che non garantiscono gloria o successo a chicchessia: la definizione non mi appartiene, ma la riconosco senz'altro come veritiera. Aggiungerei soltanto, da un punto di vista tecnico e per completezza d'informazione, che le Dolomiti meridionali garantiscono invece a chiunque quantità industriali di zecche. Si tratta di quella parte di Monti Pallidi più vicini alla pianura veneta, situati giusto a monte del medio corso della Piave: si presentano come massicci montuosi assediati dai boschi e solcati da valli strette e profonde, che non sono facili da frequentare a causa degli avvicinamenti lunghi ed impegnativi. Non è facile amarli se non si possiede un sereno rapporto con la fatica fine a se stessa, se non si è disposti a scarpinare per ore con dislivelli talvolta rispettabili, e senza grandi panorami come premio di consolazione.
Io sono un po' di parte perché si tratta delle montagne di casa, uno dei primi luoghi un po' selvatici che ho visitato dapprima con i miei genitori ed in seguito con altri amici montanari. Sui sentieri della Valle dell'Ardo ho subito il mio primo (e spero anche unico) infortunio in montagna, una banale storta alla caviglia mentre affrettavo il passo lungo la via del ritorno in fuga da un temporale; presso uno dei rifugi nel gruppo della Schiara ho svolto per qualche anno la funzione di ispettore per conto della mia sezione del club alpino, rendendomi spesso conto di quanto possa essere complicato fare il gestore in un luogo così scomodo da raggiungere; più tardi infine, grazie ai racconti dell'amico Franco che su queste crode fu prima cacciatore ed in seguito alpinista, venni infine a conoscenza che sulla Schiara ci sono le pareti rocciose più alte delle Dolomiti, oltre a percorsi escursionistici vertiginosi lungo i quali si avventurano quasi soltanto i camosci.
Un po' di avventura da queste parti l'ho vissuta pure io, sebbene con qualche risvolto comico. La mia prima estate da ispettore, il gestore di allora mi accolse con cordialità nella cucina del rifugio e mi offrì prima di tutto una bella ombra di rosso; in seguito, giusto per farmi comprendere appieno quanto fosse ingrato il suo lavoro, mi propose di seguirlo fino alla stazione di scambio della teleferica per seguire la dinamica delle periodiche operazioni di trasporto a valle dei rifiuti. Oggi la situazione è ben diversa da allora: una nuova teleferica a campata unica è stata realizzata non molti anni addietro per facilitare l'approvvigionamento del rifugio, ma in precedenza i gestori di turno dovevano accompagnare letteralmente i carichi lungo i due tronconi e scambiare il carrello a mano nel punto di intersezione. Un lavoraccio che portava via anche mezza giornata.
Già in quel tempo non provavo molta simpatia per i sentieri esposti sul vuoto, e quello in particolare era proprio un percorso da capre dove l'amico gestore sembrava muoversi con molta disinvoltura. Giunti a destinazione, il carrello venne scambiato ed il carico calato a valle in direzione di Ponte Mariano ma fu a quel punto che accadde l'imprevisto: forse i recenti lavori di manutenzione da parte di una ditta specializzata non erano perfettamente riusciti, e ce ne rendemmo conto alla fine della corsa del carrello, quando la fune traente della teleferica si sfilò completamente dal rullo e precipitò sul fondo dirupato della valle. Mentre io rimanevo a bocca aperta interrogandomi sul da farsi, l'amico gestore fu il primo dei due a riprendersi dando inizio ad un sonoro rosario di imprecazioni rivolto al firmamento.
Il costo dell'incidente ricadde sulla ditta incaricata della manutenzione, mentre io imparai che per quanti vivono e lavorano in montagna le zecche rappresentano soltanto l'ultima delle preoccupazioni.

giovedì 18 aprile 2019

IN MONTAGNA, DI CORSA

Conservo un buon ricordo delle sporadiche ma intense competizioni di corsa in montagna cui ho partecipato con impegno saltuario e risultati per me di certo accettabili, a partire dai primi anni Duemila e fino a poco tempo addietro. L'idea originale era stata proposta fra colleghi in ambito dopolavoro, e l'avevo trovata stimolante soprattutto per comprendere appieno quali fossero i miei limiti fisici a trent'anni suonati, e provare nel frattempo a valorizzare quel poco di gioventù che era rimasta.
L'obiettivo prescelto fu senz'ombra di dubbio la Transcivetta, storica manifestazione che si svolge ogni fine luglio su uno dei gruppi dolomitici più conosciuti ed frequentati. Ci attendeva un percorso lungo 20 chilometri, con circa 2000 metri di dislivello in salita ed un tempo di attraversamento che in sede di gara si sarebbe assestato sulle 3 ore e mezza: una bella sudata da non prendere sottogamba!
Soprattutto all'inizio qualche Cassandra provò in verità a dissuaderci dall'impresa elencando nel dettaglio gli sfortunati decessi occorsi causa malore nelle precedenti edizioni della gara, ma eravamo tutti convinti di possedere grande quantità di metallo nella parte anteriore delle mutande, e andammo avanti decisi per la nostra strada.
I ricordi più istruttivi, più che al giorno della gara, sono legati agli allenamenti di gruppo organizzati per provare il percorso: imparai tante cose interessanti come la stranezza che sulle forti pendenze si va più veloci camminando piuttosto che correndo, la necessità di amministrare il senso di sete quasi continua che abitualmente perseguita l'escursionista montano, lo spettro del crampo da affaticamento che può assalirti anche in discesa ed ormai in prossimità della sospirata birra.
Una volta in particolare ci trovavamo al rifugio Attilio Tissi proprio davanti alla parete delle pareti, ma avevamo purtroppo fatto male i conti con gli orari d'apertura. Erano soltanto i primi giorni di giugno ed il locale non avrebbe aperto i battenti per un'altra settimana, mentre noi aspiranti sky-runners avevamo ingenuamente poche scorte alimentari e soprattutto idriche: rimediammo alla meglio mediante alcuni fichi secchi trovati nel locale invernale del rifugio, assai ostici da inghiottire perché avevamo la bocca impastata dalla fatica e non c'era nulla da bere. Sulla via del ritorno, fra il rifugio Vazzoler e Capanna Trieste, l'acqua tanto sospirata infine arrivò sotto forma di un violento nubifragio che ci diede il benservito conclusivo.
Ho preso parte a tre diverse edizioni della Transcivetta a partire da quel luglio 2004 e durante il decennio successivo. Venne anche la volta della Sei Rifugi da Misurina ad Auronzo (due partecipazioni) e qualche altra competizione di minore importanza. Ogni volta portavo a casa dei ricordi emozionanti, ma nello stesso tempo mi rendevo conto che tutto ciò rischiava di diventare riduttivo e limitante: la montagna non è una gara e nemmeno una palestra, almeno per il sottoscritto. Per di più, mi pesavano gli allenamenti intensivi sempre sugli stessi itinerari, con gli occhi soltanto per il cronometro.
Volevo tornare a guardare l'orizzonte. Fu così che indossai nuovamente scarponi e zaino da 35 litri, trovandoli peraltro bellissimi e promettenti. Non ho ancora cambiato idea.

giovedì 11 aprile 2019

DOPO LA TEMPESTA

A scanso di baggianate panoramiche, che sono purtroppo sempre in agguato e per di più pericolose assai, questa sera riscopro un paio di immagini risalenti ad inizio inverno e scattate in Val Fiorentina - Mondevàl nei primi giorni di dicembre 2018 nel corso di un'escursione insieme ad un amico. Le foto documentano le prime avvisaglie della stagione fredda sul gruppo montuoso dei Lastói de Formín, e di per sé non saranno oltremodo evocative. Col senno di poi, mi vengono comunque in aiuto per riordinare la sequenza cronologica di quanto si è mosso sopra le nostre teste - talvolta quasi sfiorandole - negli ultimi sei mesi.
La famigerata Tempesta Vaia è venuta e andata, sebbene la Val Fiorentina non compaia tra i territori più colpiti. Rifletto sul fatto che un tempo eravamo abituati al meteo che cambiava in modo repentino con particolare accanimento nella stagione estiva, mentre oggi osserviamo più di frequente manifestazioni sopra le righe degli elementi naturali che si scatenano in maniera diversa, in termini di qualità e quantità, anche in ambiti spaziali molto prossimi tra loro. Vedi per esempio la valanga d'acqua piovana che ha divelto i ponti in Valle di San Lucano piegando perfino le putrelle d'acciaio; vedi ancora il picco di vento a velocità uragano registrato sul passo Rolle; vedi infine le radure circolari con un diametro di cento, duecento metri provocate dalle trombe d'aria nei martoriati boschi di Paneveggio, quasi come fossero cadute delle bombe ad alto potenziale.
La giornata delle due fotografie, nel suo piccolo e con le dovute proporzioni, offriva una situazione con una variabilità analoga: bufera di neve, sole, vento, caldo e freddo, con cambiamenti repentini ed inattesi da un momento all'altro. Non scriverò alcun luogo comune a proposito delle stagioni di una volta e del mito che le vorrebbe sempre migliori di quelle attuali. Ma a rischio di ripetermi, sono convinto che le terre alte rappresentano il nostro limes. E dall'altra parte ci sono forse i leoni in paziente attesa che al momento buono si apra la gabbia.

venerdì 5 aprile 2019

REGINA VIARUM

Stando a quanto narrato nei libri di storia l'impero romano si sfasciò in via ufficiale nel 476 d.C. dopo un lento declino durato alcuni secoli, ma con mio grande sollievo la romanità non verrà mai meno. Ne sono stato testimone diretto alcuni anni addietro durante una delle mie prime visite alla città eterna, da me ritenuta in assoluto la più straordinaria dell'orbe terraqueo con buona pace di quanti continuano imperterriti a cantare le lodi di altre grigie e deprimenti metropoli senza anima e passato.
È una bella mattina di primavera piena di sole, ci troviamo sulla Via Appia antica sotto i celebri pini marittimi, ed abbiamo appena terminato di percorrere a piedi quelli che in antichità sarebbero stati gli ultimi otto chilometri della regina viarum per i viandanti in arrivo da Brindisi e diretti verso l'allora capitale del mondo antico: intorno a noi si estende a perdita d'occhio la bella e verde campagna laziale dove tuttora si ergono le vestigia degli acquedotti latini, mentre sul bordo della strada incrociamo a distanza ravvicinata monumenti ed antichi edifici legati al ricordo di personalità famose. Oltrepassiamo il tempio di Ercole Vincitore all'VIII miglio, e più avanti il mausoleo di Cecilia Metella: ancora oltre ci sono le catacombe di San Callisto dove la storia di Roma si mescola con quella della cristianità.
La quasi totalità del fondo stradale è stato ricostruito in tempi moderni per preservare l'integrità di questa testimonianza storica che oggi è anche una riserva naturale, ma alcuni tratti della pavimentazione sono originali e lasciano talvolta intravedere i solchi tracciati dalle ruote dei carri di due millenni fa. Il programma della giornata prevede anche una visita guidata ai resti archeologici della Villa dei Quintili, e dopo un breve pranzo al sacco ci prepariamo per l'ingresso in questo vero e proprio museo all'aperto, fra il verde ed i colori accesi degli alberi di giuda in fiore.
Il nostro è un gruppo di camminatori non numeroso ma composito, poiché facciamo parte di un'associazione che ha diverse sezioni nel Belpaese: questo giorno in particolare, inoltre, si è aggiunto alla comitiva un ulteriore partecipante che è originario della zona ed ha le sembianze di una maschera di Carlo Verdone con qualche anno in più, e sembra addirittura saperlo imitare con strabiliante perizia. Durante la visita, la guida ci spiega come come nel secondo secolo d.C. la villa fosse una residenza imperiale già appartenuta in precedenza ai due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, potenti proprietari terrieri in ottimi rapporti con gli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio: furono tuttavia meno fortunati quando venne la volta dell'imperatore Commodo, che li vedeva come il fumo negli occhi e li accusò di tradimento, facendoli condannare a morte ed impadronendosi così delle loro proprietà. Il Carlo Verdone de noàntri ascolta il racconto, concentratissimo.
La guida è esperta ed instancabile: ci illustra i diversi settori della tenuta, i mosaici ancora in ottimo stato di conservazione, il ninfeo privato dell'imperatore dove erano in funzione impianti termali e giochi d'acqua. Racconta in modo approfondito come poteva svolgersi la vita quotidiana di un sovrano assoluto di duemila anni fa, e alla fine si rende disponibile per eventuali domande e curiosità. È a questo punto che l'immortale romanità prende il sopravvento, quando il nostro ultimo venuto alza la mano e prende la parola per chiarire a se stesso alcuni dettagli di carattere storico che perfino lui, sebbene laziale e dunque ben calato nella peculiarità del luogo, sembra non afferrare del tutto. «M'è parso davvero interessante poco fa quando diceva che l'imperatore andava di qua, andava di là, faceva questo e faceva quello...», esordisce il simil - Verdone per arrivare infine al punto culminante della sua curiosità: «Ma questo imperatore di cui parlava, esattamente, era imperatoreddeché

venerdì 15 marzo 2019

CRONACHE NEVOSE

Nei testi di geografia dei nostri tempi scolastici veniva descritto come clima continentale e significava in estrema sintesi "caldo d'estate e freddo d'inverno", con rassicurante regolarità. Ma l'approssimazione c'era eccome, e col senno di poi ce ne siamo resi conto tutti. Negli ultimi decenni ogni consuetudine in materia di meteo pazzo sembra infatti andata a quel paese (non ci sono più gli inverni di una volta... ecco un'altra bella baggianata panoramica!), e ciascuna stagione sembra proprio far conto soltanto per se stessa. Oggi stiamo uscendo da un altro strambo inverno senza neve, ma dieci anni fa esatti la situazione era del tutto opposta: la raccontavo nel modo che segue all'inizio del 2009 dal mio precedente blog su piattaforma Splinder, con un occhio di riguardo anche alle reazioni all'occorrenza esotermiche di un amico rifugista. La montagna è spesso anche frontiera, ed è proprio sui confini che i sintomi di ogni cambiamento sono più evidenti.

Un inverno così non si vedeva da decenni, forse addirittura da mezzo secolo a questa parte. Fino a un paio di anni addietro albergatori in crisi di panico, meteorologi fai da te e nuovi millenaristi lanciavano l'allarme sul deterioramento irreversibile del clima, e sulla ormai recalcitrante, ostinata assenza di precipitazioni durante i mesi freddi dell'anno. Sono stati tutti accontentati: l'ultima stagione invernale, soltanto nelle vallate bellunesi e trascurando volutamente la parte di territorio montano oltre i duemila metri dove il Generale se la prende tuttora con molta calma, è durata la bellezza di sette mesi da novembre ad aprile inoltrato.
Su quasi tutti i valichi dolomitici, e anche in molte località isolate come lo Zoldano e la valle di Garés, l'accumulo progressivo delle nevicate è arrivato a otto, nove metri di altezza secondo una stima del tutto prudente. È cominciata ai primi di novembre con le prime timide spolverate miste a pioggia; tra Natale e le prime settimane di gennaio le danze sono cominciate sul serio, con freddo intenso e nevicate abbondanti su tutti i Monti Pallidi; tra gennaio e febbraio molte borgate dell'alto Agordino sono rimaste isolate per diversi giorni, oppure hanno dovuto fare a meno di elettricità e comunicazioni telefoniche per lunghi periodi.
A fine gennaio gran parte dei piccoli Comuni di alta montagna hanno terminato i fondi in precedenza stanziati per lo sgombero delle strade; a metà febbraio il peso della neve sui tetti degli edifici era talmente elevato che molte palestre ed impianti sportivi sono crollati come castelli di carte; nel mese di marzo infine, ai primi segnali di disgelo, un'abbondante serie di slavine ha di nuovo interrotto le comunicazioni per molti paesi (Frassenè e Podenzoi, solo per citarne alcuni).
Qualche giorno fa, ci troviamo ancora sul bacino del Cordevole, il gestore di un rifugio alpino ha appena terminato il complesso tour-de-force di trasloco e rifornimenti di vario tipo in vista dell'apertura in quota della stagione estiva. È stanco e stufo: ha trascorso otto mesi spalando neve anche a casa sua, e non ne può veramente più. Mentre effettua gli ultimi lavori sul tubo dell'acqua che scende dal nevaio e sulla catasta della legna, il nostro gestore pensa che sarebbe finalmente l'ora giusta per un po' di caldo secco e torrido.
Gira improvvisamente la testa e proprio lì, in un angolo vicino al suo rifugio, rinviene un eroico e testardo cumulo di neve marcia, simpatico e strafottente souvenir dell'inverno dolomitico che sembra non finire mai. Al nostro gestore cominciano a fumare le orecchie, colto da istintiva antipatia per lo scherzo di pessimo gusto. Rivolgendosi incredulo verso l'insignificante mucchietto di neve che ha sorpreso in quell'imbarazzante posizione, strabuzza infine gli occhi e coi nervi fior di pelle allarga le braccia in segno di esasperazione esclamando: «Ancora ca, èsto?»(1)


(1) Traduzione dal dialetto agordino: «Ma sei ancora qui?»

giovedì 7 marzo 2019

BAGGIANATE PANORAMICHE

«Con le stupende montagne che avete dalle vostre parti, perché siete venuti a trascorrere le ferie proprio quaggiù?» Mi sono sentito rivolgere questo interrogativo decine di volte, e confesso di sentirmi piuttosto in crisi perché ormai insieme alla pazienza ho terminato le risposte politicamente corrette.
Ho dunque pensato di cominciare a compilare una specie di prontuario di frasi fatte e baggianate a tema montano / dolomitico / naturalistico / zoologico da utilizzare in questa ed altre situazioni simili in cui la tendenza dominante è quella di ragionare per stereotipi: un po' come riempitivo di una conversazione senza spessore, qualche valutazione scontata e superficiale degna dell'Uomo Qualunque, in casi estremi perfino un messaggio subliminale per far comprendere all'interlocutore che talvolta un po' di silenzio sarebbe ben accetto.
Questi i primissimi appunti che mi sono venuti in mente: avviso che diverse considerazioni sono del tutto prive di fondamento, altre sono semplicemente dei modi di dire scontati, alcune possono anche corrispondere al vero ma sono dei luoghi comuni diffusi urbi et orbi. Se qualcuno in futuro dovesse sentirmi affrontare uno dei seguenti argomenti, sappia fin d'ora che non sto parlando seriamente, e che rinnego qualunque affermazione contenuta nei seguenti paragrafi.

Convinzioni a carattere faunistico o botanico:
  • le vipere vengono liberate in natura dagli ambientalisti, che le allevano in cattività e le gettano dagli elicotteri dentro buste di plastica trasparenti;
  • i lupi, come del resto le vipere molti anni prima, sono stati introdotti dagli ambientalisti ed entro poco tempo diventeranno i padroni del territorio montano sottraendolo all'uomo;
  • le zecche sono dei ragni, e ti saltano addosso dagli alberi come fossero cavallette;
  • per scacciare le vipere quando si cammina su un sentiero bisogna battere le mani; 
  • più bello è il fungo, più potente è il veleno che contiene;
  • esistono animali selvatici utili, mentre altri sono nocivi.
Affermazioni campate per aria in tema di geografia e confini politici:
  • il Trentino è sinonimo di montagna;
  • le Dolomiti si trovano tutte in Trentino, o al massimo in Alto Adige;
  • le Dolomiti sono le più belle montagne del mondo.
Al momento ho focalizzato un unico falso mito riguardante il Gentil Sesso:
  • le donne non sono capaci di leggere le cartine topografiche.
Convinzioni che riguardano terre alte e montanari:
  • in montagna non succede mai niente;
  • chi abita in montagna vive a contatto con la natura;
  • la montagna migliora il carattere delle persone;
  • i montanari sono gente di poche parole e molti fatti, e all'occorrenza la prima cosa che muovono sono le mani.
Montagna e meteo sono un'associazione di idee cui è difficile resistere:
  • in montagna, le condizioni meteorologiche cambiano in men che non si dica; 
  • quando fa troppo freddo è impossibile che si metta a nevicare;
  • la pioggia di agosto rinfresca il bosco.
Natura e cronaca nera (e come potrebbe mancare?):
  • montagna assassina (titolo fisso sui quotidiani in caso di incidenti con vittime).
Fenomenologia della passeggiata domenicale svogliata:
  • camminando in montagna, passano le ore ma il rifugio non si avvicina mai;
  • in montagna, chi no porta no magna;
  • in alta montagna, la pasta resta sempre al dente;
  • a camminare in salita si fa troppa fatica;
  • lo zaino migliore è quello che non fa sudare la schiena.

Ma l'elenco potrebbe continuare...