venerdì 15 marzo 2019

CRONACHE NEVOSE

Nei testi di geografia dei nostri tempi scolastici veniva descritto come clima continentale e significava in estrema sintesi "caldo d'estate e freddo d'inverno", con rassicurante regolarità. Ma l'approssimazione c'era eccome, e col senno di poi ce ne siamo resi conto tutti. Negli ultimi decenni ogni consuetudine in materia di meteo pazzo sembra infatti andata a quel paese (non ci sono più gli inverni di una volta... ecco un'altra bella baggianata panoramica!), e ciascuna stagione sembra proprio far conto soltanto per se stessa. Oggi stiamo uscendo da un altro strambo inverno senza neve, ma dieci anni fa esatti la situazione era del tutto opposta: la raccontavo nel modo che segue all'inizio del 2009 dal mio precedente blog su piattaforma Splinder, con un occhio di riguardo anche alle reazioni all'occorrenza esotermiche di un amico rifugista. La montagna è spesso anche frontiera, ed è proprio sui confini che i sintomi di ogni cambiamento sono più evidenti.

Un inverno così non si vedeva da decenni, forse addirittura da mezzo secolo a questa parte. Fino a un paio di anni addietro albergatori in crisi di panico, meteorologi fai da te e nuovi millenaristi lanciavano l'allarme sul deterioramento irreversibile del clima, e sulla ormai recalcitrante, ostinata assenza di precipitazioni durante i mesi freddi dell'anno. Sono stati tutti accontentati: l'ultima stagione invernale, soltanto nelle vallate bellunesi e trascurando volutamente la parte di territorio montano oltre i duemila metri dove il Generale se la prende tuttora con molta calma, è durata la bellezza di sette mesi da novembre ad aprile inoltrato.
Su quasi tutti i valichi dolomitici, e anche in molte località isolate come lo Zoldano e la valle di Garés, l'accumulo progressivo delle nevicate è arrivato a otto, nove metri di altezza secondo una stima del tutto prudente. È cominciata ai primi di novembre con le prime timide spolverate miste a pioggia; tra Natale e le prime settimane di gennaio le danze sono cominciate sul serio, con freddo intenso e nevicate abbondanti su tutti i Monti Pallidi; tra gennaio e febbraio molte borgate dell'alto Agordino sono rimaste isolate per diversi giorni, oppure hanno dovuto fare a meno di elettricità e comunicazioni telefoniche per lunghi periodi.
A fine gennaio gran parte dei piccoli Comuni di alta montagna hanno terminato i fondi in precedenza stanziati per lo sgombero delle strade; a metà febbraio il peso della neve sui tetti degli edifici era talmente elevato che molte palestre ed impianti sportivi sono crollati come castelli di carte; nel mese di marzo infine, ai primi segnali di disgelo, un'abbondante serie di slavine ha di nuovo interrotto le comunicazioni per molti paesi (Frassenè e Podenzoi, solo per citarne alcuni).
Qualche giorno fa, ci troviamo ancora sul bacino del Cordevole, il gestore di un rifugio alpino ha appena terminato il complesso tour-de-force di trasloco e rifornimenti di vario tipo in vista dell'apertura in quota della stagione estiva. È stanco e stufo: ha trascorso otto mesi spalando neve anche a casa sua, e non ne può veramente più. Mentre effettua gli ultimi lavori sul tubo dell'acqua che scende dal nevaio e sulla catasta della legna, il nostro gestore pensa che sarebbe finalmente l'ora giusta per un po' di caldo secco e torrido.
Gira improvvisamente la testa e proprio lì, in un angolo vicino al suo rifugio, rinviene un eroico e testardo cumulo di neve marcia, simpatico e strafottente souvenir dell'inverno dolomitico che sembra non finire mai. Al nostro gestore cominciano a fumare le orecchie, colto da istintiva antipatia per lo scherzo di pessimo gusto. Rivolgendosi incredulo verso l'insignificante mucchietto di neve che ha sorpreso in quell'imbarazzante posizione, strabuzza infine gli occhi e coi nervi fior di pelle allarga le braccia in segno di esasperazione esclamando: «Ancora ca, èsto?»(1)


(1) Traduzione dal dialetto agordino: «Ma sei ancora qui?»

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