martedì 7 maggio 2019

IN FONDO AL BUCO (SARDEGNA 4/4)

Da distratto che sono, mi sono reso conto da poco che non avevo mai riproposto la quarta ed ultima parte di questo racconto. I fatti narrati si riferiscono ad un trekking pasquale in Sardegna organizzato nel 2007 con alcuni amici escursionisti bellunesi. Si tratta senza ombra di dubbio di uno dei più emozionanti viaggi zaino e scarponi ai quali abbia preso parte, impegnativo a livello fisico e coinvolgente dal punto di vista emotivo. La pubblicazione originale ebbe luogo sul mio vecchio blog con piattaforma Splinder, mentre i tre capitoli precedenti sono tuttora disponibili più indietro, nella cronologia di questo stesso sito.

«Ragazzi, ditemi ciao». Mario agguantò la pesante grata disegnata per ostruire l'imboccatura della grotta, e in men che non si dica mise alcune solide sbarre tra noi e la luce del giorno. Un attimo prima si trovava cinque metri a piombo sopra di noi, fuori dall'angusto budello che ci separava dalla superficie, e adesso era semplicemente scomparso! Un grido stridulo di panico selvaggio scoppiò all'unisono nella componente femminile della comitiva, mentre nella testa dei maschietti si accese una spia di allarme: «Esiste una remota eventualità che non sia uno scherzo?»
Ci trovavamo ancora una volta nella vallata di Lanaitto sul fondo della spelonca di Su Bentu, uno dei quasi invisibili buchi così caratteristici sulle fiancate del Supramonte. Era l'ultimo giorno della nostra breve vacanza in Sardegna, ma in quel momento a qualcuno venne il terribile sospetto che forse non saremmo riusciti a prendere l'aereo per tornare a Venezia. Una calata in corda doppia di circa cinque metri ci aveva permesso di scendere nelle viscere della terra, ma adesso come ce la saremmo cavata? E soprattutto: come cavolo eravamo finiti lì sotto?
Eravamo arrivati a Oliena cinque giorni prima, e durante il nostro soggiorno pasquale nel Nuorese avevamo avuto modo di visitare gli ambienti naturali più diversi: le nevi del Gennargentu, le aride pietraie affilate del Supramonte e i profondi specchi d'acqua nel Gorropu. Dopo una giornata quasi balneare sulla spiaggia di Cala Luna, Mario dichiarò che non avremmo potuto concludere la nostra permanenza senza visitare una vera grotta sarda stracolma di stalattiti e magnifiche concrezioni. Le poche, timide voci contrarie vennero ignorate, e la frittata era fatta.
Ebbene sì, la commedia culminante di quel gran buontempone di Mario aveva avuto un ottimo successo. Il nostro timore latente dei luoghi bui e profondi, associato alla sinistra fama della Sardegna in fatto di sparizioni improvvise di persone, aveva fornito l'occasione per inscenare una rappresentazione teatrale di tutto rispetto. Un'avventura che, Mario ne era sicuro, non avremmo rinunciato a raccontare a mezzo mondo una volta tornati a casa. Cinque secondi dopo, non uno di più, Mario era infatti ricomparso esibendo un sorriso a trentadue denti: «Ci avevate creduto, non è vero?», esclamò reggendosi la pancia dalle risate.
L'allestimento della scampata tragedia era stato del resto accurato: partiti alle 03:30 del mattino dall'agriturismo come dei carbonari, avevamo in seguito atteso la prossimità dei primi chiarori dell'alba in una radura boscosa a Lanaitto, nella più completa oscurità se non fosse stato per un generoso falò improvvisato sul luogo in stile giovani esploratori utilizzando legname schiantato. Confortati da caffè e cornetti magicamente usciti dallo zaino del nostro accompagnatore, indossammo imbraghi e lampade a carburo circondati dagli strepiti degli uccelli notturni.
Infine partimmo, trattenendo quasi il respiro per rispettare la raccomandazione di Mario di non produrre baccano durante l'avvicinamento a Su Bentu: «C'è un pastore da queste parti», ci aveva avvisato, «non vorrei spaventarlo e indurlo a pensare che gli stiamo rubando il bestiame». Nel complesso, tutto ricordava quasi il set di un B - movie degli anni Settanta: fossero comparsi Grizzly, l'orso che uccide oppure una masnada di tagliagole armati di coltellaccio, la scena sarebbe stata perfetta.
L'ingresso verticale della caverna, che faceva appena intuire la sottostante vacuità color nero disperazione, sarà stata larga al massimo cinquanta centimetri. Quando atterrammo sul fondo, una volta abituati gli occhi alla pallida luce dell'acetilene, fummo colti da autentica meraviglia: davanti a noi si estendeva un labirinto di sale con abbondanza di composizioni carsiche: colonnati, drappeggi, ventagli di stucco multicolore, fiori di pietra e coralli di calcare, ardite architetture dalla staticità precaria che sembravano comunicare allo spettatore un solo perentorio messaggio: vietato toccare.
Una volta risaliti all'aria aperta, arrampicandoci alla meno peggio nello stretto cunicolo percorso all'andata, mi sembrò di aver passato nell'oscurità un tempo indefinibile: erano tuttavia soltanto le 10 di mattina, e la nostra "ora di libertà" era bell'e finita. Una volta tornati in agriturismo ci attendevano solo una doccia per ripulirci dal fango e l'ultimo pasto della nostra breve vacanza insieme a Mario e alla sua ospitale famiglia. Spazzolammo in fretta tutto il pecorino e il cannonau ancora reperibili, e già eravamo sulla strada del ritorno.
La serata dello stesso giorno ammiravamo il tramonto sul mare dai finestrini di un aereo, e dopo neanche un'ora di volo comparve sotto di noi la familiare mole del campanile di San Marco. Il mattino seguente, puntuale come d'abitudine, timbravo il cartellino in ufficio. Avviai il computer con gli occhi semichiusi, ma prima di calarmi nuovamente nella quotidianità del lavoro, trovai il tempo per un'ultima considerazione: ieri mattina stavo sul fondo di un antro oscuro della Barbagia, timoroso di non vedere mai più il bagliore del sole. Proprio buffa, la vita.

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