mercoledì 29 maggio 2019

A CASA DI HEIDI

In un articolo di qualche settimana addietro ho colpevolmente scordato una baggianata panoramica tra le peggiori di sempre: «In montagna si mangia sempre bene, e alla fine ci si lecca pure le dita». Nulla di più lontano dal vero, ovvio. Ricordo ai più distratti che la nozione di baggianata panoramica comprende affermazioni di apparente buonsenso basate il più delle volte soltanto sul sentito dire, dogmi fai - da - te che potrebbero anche corrispondere al vero in diverse situazioni concrete ma si dimostrano inaffidabili di fronte a sconcertanti casi particolari. Correva l'anno 2012, quando fui testimone diretto di un evento significativo in tal senso. Spiego in primo luogo l'antefatto.
Insieme ad una ridotta ma affiatata compagnia di camminatori mi trovavo sul suolo francese, e più in particolare nelle immediate vicinanze di Chamonix. Era il mese di agosto ed il nostro itinerario lungo ben nove giorni consisteva nel Grand Tour du Mont Blanc, il giro completo del massiccio del Monte Bianco da Courmayeur a Courmayeur attraverso Italia, Svizzera e Francia, oltre settemila metri di dislivello con diversi valichi alpini d'alta quota da superare. Forse è superfluo precisarlo, ma si tratta di uno dei più emozionanti e coinvolgenti itinerari escursionistici che al giorno d'oggi si possono intraprendere a livello europeo: oltre che per la simpatica comitiva di cui facevo parte, io lo ricordo in particolare per la vicinanza costante e grandiosa ai mirabili ghiacciai cui da buon Dolomitico non ero abituato. Certo, il riscaldamento globale si fa ormai sentire anche quassù e bisogna ammettere che le lingue di ghiaccio si sono conservate assai meglio sui versanti francese e svizzero che sono rivolti verso nord - ovest e godono dunque di un'esposizione più favorevole. Sul lato italiano, come risulta più evidente per esempio in Val Veny, si intuisce il passato splendore di questo gigante di roccia e ghiaccio ma oggi bisogna accontentarsi di larghe autostrade di ghiaia dove ogni traccia di permafrost è solo un lontano ricordo.
Questo l'itinerario seguito dal nostro gruppo, descritto per sommi capi. Lasciato Courmayeur e risalita per intero la Val Ferret, si passa in territorio svizzero e mediante un breve trasferimento in autocorriera si giunge a Champex sulle rive dell'omonimo lago. Sempre in terra elvetica, si prosegue di nuovo a piedi alla volta di Trient valicando la Fenètre de l'Arpette che noi abbiamo affrontato sotto un furioso temporale. Si arriva infine in Francia per il Col de Balme, dal quale si coglie con un unico sguardo la vallata di Chamonix che si attraversa integralmente sulla destra orografica, lungo il massiccio delle Aiguilles Rouges. Dopo le tappe intermedie del rifugio La Flegère e Col Brevent, nei pressi di Les Houches si scende dapprima sul fondovalle per attraversare in seguito il tracciato del trenino a cremagliera che si arrampica fino ai 2400 metri del Nido d'Aquila. Seguono la verde conca del Lac Jovet, la Ville des Glaciers circondata da pareti di cristallo, ed infine il rientro in Italia sul valico del Col de La Seigne. Un ultimo pernottamento al rifugio CAI Elisabetta Soldini, e già siamo di ritorno a Courmayeur.
Dopo un paio di tappe particolarmente impegnative sotto l'aspetto fisico (non scordiamo che si viaggiava con lo zainone da cinquanta litri in stile Alta Via), un bel giorno eravamo tutti cotti al punto giusto ed in vena di rilassarci con le gambe allungate sotto un tavolo. Il piccolo rifugio privato dove avremmo pernottato era sì leggermente spartano e con le comodità ridotte all'essenziale: ma cosa volete che sia, per una compagnia di escursionisti disidratati che avevano già alle spalle buona parte del perimetro del tetto d'Europa? Semplici dettagli, niente di più. Inoltre, sembrava proprio di stare a casa di Heidi: era una fiabesca serata estiva, il tramonto accendeva di rosso i ghiacciai sopra le nostre teste e l'unico rumore percepibile era un leggero vento che accarezzava l'erba sui pascoli circostanti. Cos'altro potevamo desiderare? Mangiare e bere a volontà, c'è forse bisogno di precisarlo?
E qui si presentò la prima, spiacevole sorpresa: il rifugio non possedeva una licenza per la vendita di alcolici, dunque avremmo trascorso la serata in meditazione salutistica come degli asceti, senza nemmeno la possibilità di reintegrare i sospirati sali minerali. La sorpresa numero due ci lasciò disorientati: in tavola per cena venne servito un deprimente vassoio pieno di pasta in bianco, varietà a grano tenero, rigorosamente scotta e senza condimento. Per pura cortesia, venne aggiunto su nostra richiesta qualche cubetto di burro del menu colazione in modo da far fronte al nostro evidente sgomento. Il colpo di grazia arrivò con la sorpresa numero tre: dessert a base di gelatina dolce tremolante, che puzzava di colorante chimico a distanza di cinque metri. Come avremmo potuto reagire, di fronte ad una simile Caporetto gastronomica? L'unica soluzione era fare buon viso a cattivo gioco: ci ritirammo in buon ordine verso le brande con grande fiducia nel futuro benevolo, traendo conforto insperato dalla somma ed ennesima baggianata panoramica trita e ritrita: «Soltanto nei rifugi italiani si mangia veramente bene!»

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